«Camminare sulla cresta del vero»: la maternità interrotta in "Copia conforme" di Stéphanie Kalfon

 



Copia conforme
di Stéphanie Kalfon
Clichy, 2024

Traduzione di Tommaso Guerrieri

pp. 198
€ 19,50 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

“Questa bambina vuole solo una cosa, essere ancora mia figlia, e che io resti sua madre” (p. 144)

Copia conforme si apre su un’uscita al luna park per festeggiare l’ottavo compleanno di Nina, una giornata di festa che i genitori Emma e Paul trascorrono inconsapevoli di ciò che si sta per abbattere su di loro. Al tirassegno, infatti, la bambina scompare. Mentre la madre, narratrice interna della storia, fende ali di folla per ritrovare la sua bambina, il trauma di questo vuoto improvviso viene descritto dall’autrice nei termini di una deformazione dello sguardo, che rende tutto grottesco e rallentato. È massivo, in una prosa densa, sensibile a ogni moto dell’animo, il ricorso al campo semantico della pietrificazione, dell’inanimato: la donna è presa da una «sensazione di pesantezza», dominata dalla «lentezza», il sangue è «come un fiume di cemento nelle vene», lei è «imbalsamata», «un manichino», «una marionetta». Questo stato dominante, che fa della donna un automa, non svanisce però neanche quando la piccola, la mattina dopo, viene ritrovata: 

le mie emozioni non rispondono, invece dell’intensità mi sento intrappolata in una densa formalina, anestetizzata. […] Guardo mia figlia e non sento niente. (p. 18) 

È un’analisi lucida, impietosa, quella che la madre fa del suo sentire, nella consapevolezza che sia difforme, fuori luogo: percepisce come sbagliata l’estraneità che prova, ma non riesce a arrestarla o correggerla, tanto da convincersi che sia motivata. Forse, dopotutto, quella che è stata trovata, che ha le fattezze di sua figlia, che cerca il contatto e la consolazione in lei, non è davvero sua figlia. Come l’artista intimamente, visceralmente conosce la sua opera e sa distinguerla dal plagio del falsario, per quanto abile, così anche la madre può fare con la figlia. E non importa allora che tutti la riconoscano per vera: lei sente, lei sospetta, lei sa che «quella bambina è una copia» (p. 28).

Nel romanzo di Stéphanie Kalfon il tempo della storia non coincide con il tempo del racconto; questo si colloca molti anni dopo gli eventi, quando la donna, che nel frattempo ha subito un processo e una condanna su cui siamo chiamati a interrogarci, si rivolge direttamente al lettore, e alla figlia, in cerca di comprensione, se non di perdono. A questa istanza si deve il suo scavo metodico e doloroso, il tentativo di capire che pure non assolve: «ho pensato che fosse la notte ad aver inghiottito mia figlia, ma quella notte aveva avuto luogo in me. Il mio cuore era a posto, quello fuori posto era il mio cervello» (p. 29).

Le pagine procedono in una corsa affannosa e ci mostrano il rapido disgregarsi di una famiglia borghese: una facciata da mantenere a ogni costo che fatica a celare il colloquio interrotto tra i coniugi, un fastidio reciproco crescente, il senso di solitudine, di abbandono della donna (che diventa quello delle madri, e della fragilità psichica in senso lato).

Nel descrivere ciò che prova (o non prova) per la figlia, questa bambina ormai sconosciuta, che intuitivamente sente il distacco della mamma e ne soffre senza saperlo esprimere, la narratrice non si risparmia nelle scelte lessicali: carezzare la piccola le provoca «disgusto», la trova «fasulla», un «sosia menzognero». La vita diventa una grottesca commedia in costume, dalle battute repentine che frammentano una conversazione sempre vuota, che si aggira intorno all’abisso e non ha il coraggio di guardarci dentro, già in preda alle vertigini. La bambina è diversa, si comporta in modo strano: anche il padre se ne accorge e sospetta un trauma nascosto, inconfessato. La madre invece non si arrende all’idea della sostituzione. Pur dietro la parvenza dell’analisi razionale, chirurgica, di fatti e sentimenti, la focalizzazione interna ci fa dubitare, ci spinge a interrogarci su quanto, di ciò che leggiamo, sia frutto della mente già vacillante della narratrice. Emma appare sempre più ossessionata dal pensiero che le rode la mente come un tarlo, e ciò la rende crudele:

Cosa posso farci se ho perso il mio interesse per lei proprio come si perde l’appetito? […] È più forte di me, mi disturba. Violentemente. Anche quando non fa niente. […] I miei sospiri le dicono che non è all’altezza, che non è mai sufficiente per tenersi il posto. Così si trova di fronte al fallimento: incapace di consolarmi e responsabile della mia tristezza. (p. 81)

La vediamo in bilico, in lotta con se stessa, col marito, con la bambina, mai chiamata col suo nome, Nina, perché Nina è il nome dell’altra, quella vera, di cui lei è usurpatrice, quella che non è mai tornata da quella notte e che bisogna continuare a cercare.

Poco conta quel che dice la scienza – il test del DNA che conferma l’appartenenza, gli esami diagnostici che rivelano un’anomalia neurologica –; poco conta anche che dal passato emergano pallidi riflessi di una tragedia mai superata… Emma non guarda nulla, non accetta nessuna intromissione al suo pensiero assillante, e l’autrice è davvero molto abile nel farci intuire quanto spesso sia il filtro operato sugli eventi dalla sua coscienza destabilizzata. Solo in alcuni momenti, dalla soggettività, appare uno spiraglio di consapevolezza: 

ciò che accede alla mia coscienza mi sembra deformato da un’illusione ottica: il mio cervello crea false connessioni e false rotture che però indicano la verità. (p. 139)

Stéphanie Kalfon riesce a generare con la sua scrittura uno straordinario senso di inquietudine, che nasce dal sapere – più della madre – che la bambina è effettivamente Nina, ma di non poter ugualmente fare a meno di dubitarne. Il male si abbatte su una famiglia in modo incongruo, sottile. Si insinua progressivamente nella sua opera distruttrice e nessuno può sentirsi davvero alieno a questo processo, a questa possibilità. Ciò che ferisce di più è proprio il dolore della figlia, raccontato in forma mediata ma evidentissimo: i suoi tentativi di ricostruire un rapporto negato, di trovare tracce di un amore dovuto, gli sforzi di corrispondere all’immagine che l’altra va cercando. «La mia malattia è una prigione senza porta», dice Emma. Ma in questa prigione non è rinchiusa solo lei.

Il romanzo di Kalfon ruota intorno al concetto di un limite, continuamente lambito e poi definitivamente superato. Questo limite è una soglia sull’ignoto, sul vuoto di senso, sull’irrazionale; una soglia che apre alla memoria di un passato luttuoso, che porta il lettore a interrogarsi sul reale senso del titolo, su chi sia, in fondo, la “copia conforme”, e che poi proietta in un futuro per cui, si sa, e non senza malinconia, non esiste alcuna soluzione stabile, definitiva.

Carolina Pernigo