Autobiogrammatica
di Tommaso Giartosio
minimum fax (febbraio 2024)
pp. 440
€19 (cartaceo
€ 11,99 (e-book)
Si può davvero affermare che per ogni lingua esista una versione standard, compresa e condivisa da tutti i suoi parlanti, allo stesso modo? O forse la lingua, essendo lo strumento con cui pensiamo, ci esprimiamo, ci relazioniamo agli altri, è plasmata in modo personale da ciascuno, e raccontare la vita di una persona significa anche e soprattutto raccontare la storia della sua lingua? Questa proposta regge l’intera narrazione di Tommaso Giartosio in Autobiogrammatica (minimum fax), recentemente apparso tra i 12 candidati del Premio Strega.
Le parole, a volte, dettano le nostre azioni. Non ne siamo quasi mai consapevoli. Crediamo di aver scelto di volare in una certa direzione, ma in realtà siamo guidati dagli ultrasuoni che noi stessi emettiamo. (p. 24)
Autobiogrammatica è la narrazione della vita dell'autore attraverso due assi cartesiani: le persone che ha a cuore, e le parole che di volta in volta sono state importanti, in quanto annotate su un diario, sentite a ripetizione dalla bocca di un genitore, o ancora pronunciate al momento sbagliato e alla persona sbagliata.
In un’ottima recensione al libro apparsa su «Il Foglio», Matteo Moca ha commentato che il libro di Giartosio «è ben lontano dalle narrazioni autobiografiche o infarcite di autofiction che saturano la letteratura contemporanea»: ma se vogliamo parlare dell’operazione letteraria sperimentale e molto ben riuscita di Giartosio, non possiamo cadere vittime della renitenza tutta italiana alle scritture dell’io. La tendenza a svalorizzare un genere che invece, all’estero, ha già dato prove di ottima qualità letteraria ci può solo tenere più lontani dall’apprezzare a tutto tondo il libro di Giartosio (il quale, tra l’altro, ha scritto della narrazione dell’io in Italia in un interessantissimo articolo uscito su «The Italian Review», dal titolo Il naufragio del singolare. Dunque, apriamoci all’etichetta di autobiografia, di autofiction, di scrittura di sé, e osserviamo come Giartosio innovi il genere.
Innanzitutto, nel libro sono inserite varie immagini: disegni, scarabocchi, grafici e fotografie che rendono il testo tridimensionale, e aiutano il lettore a dare forma fisica agli oggetti del ricordo di cui scrive il narratore: la rubrica alfabetica in cui veniva raccolto – letteralmente – il lessico famigliare di casa, la pagina del diario di scuola (sabato, 7 maggio) con il disegno del capo della CIA, scarabocchi in cui le lettere diventano personaggi e prendono vita sulla pagina. Le immagini tuttavia non sono pure rappresentazioni didascaliche di quanto scritto a parole: assumono una postura evocativa, giocano con il lettore e, mano a mano che ci si addentra nel libro, acquisiscono sempre più autonomia, quasi a formare una narrazione a sé.
Inoltre, il libro è strutturato in due macro-sezioni: la seconda, Abbecedario, è la vera narrazione di una vita attraverso le parole che l’hanno segnata, ferita, valorizzata. La prima invece, Presa di parola, è una lunga premessa – no, un racconto metodologico, il racconto di com’è nato il progetto di un’auto-bio-grammatica, un’autobiografia per parole. E checché ne dica l’autore («È come le genealogie bibliche: chi vuole la può saltare», p. 5), è la sezione in cui il lettore può sbirciare nei retroscena dell’intuizione geniale di Giartosio, oltre che godere di pagine bellissime sul linguaggio:
Ho capito che il linguaggio era un taglio di carne o un metro di stoffa, una cosa materiale. E che una lingua, a raccontarla, diventava linguaggio: così come una persona a raccontarla diventa per forza un personaggio. (p. 39)
Voglio cercare di capirlo (il linguaggio, ndr): ma è una comprensione attiva e infantile, quella del bambino che per capire un gioco ci gioca, ne fa una storia. Capirlo per quanto si può, finché posso, finché non si è ancora dissolto e disintegrato; finché affiora. E poi, come tutto il resto, buttarlo via. (p. 44)
Quando l’autobiografia vera e propria prende il via, l’autore ci guida con maestria in un romanzo di formazione, della sua formazione: dal rapporto con i genitori, agli episodi di bullismo, alla scoperta della coscienza politica, alla perdita delle persone care. Il tutto, sempre ben collocato nel quadro temporale e culturale di ciascun momento, e sempre raccontato attraverso – anzi grazie alle parole.
L’invito è a guardare alle parole non solo come a specchi che riflettono la vita, ma come sue ragioni ontologiche.
Così a volte, di fronte a un lutto, c’è bisogno di «segnalare con una censura o un silenzio lo spazio di parola che la morte apre» (p. 51). Oppure, ragionando sulle proprie origini, si scopre che dai genitori non abbiamo preso solo la vita, ma anche il lessico: «Bella scoperta, insomma: non si parla proprio di lingua madre? Il nostro lessico famigliare deriva soprattutto da lei. È il linguaggio di mia madre» (p. 126)
Autobiogrammatica è un libro originale, consapevole, godibile: Giartosio è stato in grado di mescolare sperimentazione letteraria e una scrittura elegante, che fa veramente della parola il suo nucleo creativo.
Michela La Grotteria
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