La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto - quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista - faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava. […] Detestare è il verbo più preciso. Non so se la odio, anche se spesso ho pensato di odiarla, ma forse erano sentimenti più miseri e meno radicali di quelli che mi ispirava: […] Nel detestare invece è implicita una presa di distanza, da un essere umano come da un’idea, e il desiderio di non volerci avere niente a che fare, di volersi spostare da ogni possibile linea di collisione. (pp. 9-10)
Quanto sono dure queste parole! Altre dello stesso tenore, combinate in maniera diversa, costellano il nuovo romanzo di Antonio Franchini, scrittore pluripremiato ed editore. Provare ribrezzo e ripugnanza per colei che ci ha messo al mondo è mostruoso e inconcepibile. Provare schifo per la propria madre è quasi un sentimento contro natura, assurdo, estremo. Perché estrema è la stessa Angela, madre dello scrittore: figura ingombrante nella vita di Franchini, lei ha incarnato quel qualunquismo, quel cinismo, quel rovesciamento di valori che lui ha sempre detestato.
Se devo immaginare la traduzione pratica del pensare male, eccola. Lei e sua madre sono questo: pensano male, pensano solo al male, immaginano solo il male. Peggio, non al male, ma a quello che è il male secondo loro. Lo sospettano dovunque, lo vedono. Anzi, lo prevedono. Non penso alla fatica che fanno a vivere così, non penso a loro con pena o commiserazione, penso solo che mi fanno schifo.
Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo. (p.78)
La storia della letteratura è piena di rapporti conflittuali tra madre e figlia e tra padre e figlio, invece nel romanzo di Franchini è il figlio, l’io narrante, a voler prendere posizione contro la figura materna. Con una scrittura graffiante, che vuol lacerare anche con le parole, taglienti come lame affilate, Franchini parla di sua madre Angela, un Vesuvio ambulante che erutta fuoco, una donna poco materna, tutto l’opposto di quell’ideale di mamma buona, dolce, affettuosa, regina del focolare domestico e garante dell’armonia familiare a cui ci ha abituati la letteratura. Angela è davvero tutt’altro: ha il fuoco dentro e quando erutta genera un cataclisma nei rapporti con i figli e i parenti acquisiti. Mette in moto un turbine, diventa «un sismografo impazzito che oscilla solo all’improvviso» (p. 91) e trasmette questa furia violenta e cieca allo stesso Antonio, che quasi desidera a volte procurarle un dolore fisico:
Se cerchi di ragionare ti deride, ti sfida in modo tale che l’unica possibilità diventa andarsene, abbandonare il campo, se non vuoi cedere alla voglia di afferrare il primo oggetto a portata di mano e spaccarglielo sulla faccia. Che è l’unico istinto che provo, ogni volta. Ho voglia di farle paura e di farle male, di procurarle uno spavento o un dolore che le tappino quella bocca maledetta capace di vomitare ingiurie a raffica, senza sosta, ma so che se non la lasciassi svenuta a terra riprenderebbe a insultarmi appena mi allontano. (p. 91)
Come dopo un’eruzione o un cataclisma naturale, dopo le sfuriate di Angela segue una calma surreale e la donna riprende a chiacchierare col figlio come se nulla fosse successo, lasciando tutti esterrefatti, e dopo una tregua di durata variabile, ma soprattutto imprevedibile, questa Erinni napoletana ritorna ai suoi atteggiamenti detestabili e alle sfuriate contro tutti e tutte. E se qualcuno volesse chiederle il perché di certe sue azioni esagerate è solita rispondere: «Accussì m’ha ditt’’a capa» (p. 48), un’affermazione napoletana laconica che chiude le questioni senza una reale giustificazione. Angela non sopporta alcune categorie di persone (in primis le maestre, «in base all’ assioma, ribadito lungo la sua intera esistenza, che tutte le maestre siano da considerarsi cretine», p. 19), processa facilmente qualsiasi donna un po’ più indipendente, le giudica male tutte, in verità, sulla base di criteri strettamente suoi, per cui tutte le donne sono in qualche modo delle meretrici. Sua madre non ha mai avuto amiche, non conosce la tenerezza, diffida pure dell’amore:
Sostiene che l’amicizia tra donne non può esistere, tanto meno quella tra maschi e femmine, perché i maschi dalle femmine vogliono una cosa sola. Le amiche delle mie sorelle sono approfittatrici o puttane, i miei scostumati e stronzi. A meno che non siano figlie o figli di quelli che definisce «professionisti»: medici, ingegneri, avvocati, o commercialisti come mio padre. (p. 11)
Franchini narra della vita e della morte di sua madre seguendo un ordine essenzialmente cronologico, dai ricordi più memorabili della sua infanzia fino agli ultimi giorni di lei. Sin dalle prime battute assaggiamo la tempra, il tono e l’argomento del libro: il tratto graffiante e provocatorio della sua penna, che lascia talvolta interdetto il lettore, e la descrizione di una donna unica, in negativo però:
Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza. (p. 7)
Si parte dalla caratteristica fisica che più qualifica Angela, il fetore che emana il suo corpo, conseguenza di una tubercolosi addominale, operata - come orgogliosamente riferisce a tutti - da «’o professore Monaldi» (p. 74). Franchini passa poi a delineare i rapporti che sua madre ha col resto del mondo, a partire dal suo nome, Angela, che detesta, e passando poi buona parte delle vicende a narrare le relazioni con gli abitanti del loro condominio, dal piano terra all’ultimo piano, con l’inserimento delle saporite affermazioni che sua madre fa sulla politica italiana e straniera, o, per meglio dire, sui diversi capi di Stato. Non se ne salva nessuno, o quasi!
Non ha mai parlato con uno straniero in vita sua, ma ha opinioni precise su ogni popolo della terra. Odia inglesi, francesi e tedeschi, perché sono gli abitanti dei paesi forti dell’Europa e le fanno schifo per questo, perché credono di essere meglio degli altri. I tedeschi, poi, che hanno pure fatto i campi di concentramento…Per la Merkel nutre un’avversione particolare. La aborre forse anche perché si chiama Angela come lei, ma è un’Angela tutta diversa, opposta: certo non è friccicarella, porta sempre lo stesso vestito, «pare Hitler femmina». Non capisce perché la lingua franca debba essere l’inglese e non il latino, com’è stato per secoli. Invece le stanno simpatici i russi, le piace Putin. E i cinesi, perché a Napoli, dice, ci sta una «Salita cinesi», e a lei basta per dedurre che fin da tempi remoti noi eravamo loro amici. E forse perché le piace la cucina cinese, dove si mangia piccante e si frigge qualsiasi cosa. (p. 71)
Il rapporto col cibo è un altro tratto qualificante di questa madre-vulcano, virago materica e fisica, che si riflette nella più ampia visione utilitaristica del mondo da parte di lei: «quel desiderio di beni, di stabilità, di permanenza, quella mancanza di ogni slancio ideale, quel materialismo angusto, incrollabile» (p. 96). Angela e sua madre, ovvero la nonna dello scrittore, tanto nefasta da essere chiamata “Locusto”, cioè flagello biblico, sono già apparse come figure fortemente negative nel precedente romanzo di Franchini, L’abusivo, incentrato sull’omicidio del giovane cronista Giancarlo Siani. Entrambe le donne condividono un’unica visione del mondo, un luogo senza slanci ideali e senza poesia: «Per loro l’ incanto esiste solo davanti a un piatto di frittura» (p. 77).
A Napoli Angela si rifornisce ogni giorno di pesce fresco presso il negozio di fiducia, il Grottino di Lorenzo. Il povero negoziante scopre ben presto il carattere vivace e prepotente della sua cliente più affezionata, che gli mette a soqquadro i banchi, litigando con diverse massaie che vogliono aggiudicarsi come lei il pesce migliore, i gamberi più prelibati. Il giovane, racconta quasi divertito Franchini, un giorno chiede aiuto a don Eugenio, il marito di Angela, perché la donna venisse allontanata dalla pescheria:
A quel punto, mettendosi le mani nei capelli, il pescivendolo si rivolge a mio padre e lo implora: «Don Euge’, portatélla [portatela via; nel dialetto di Formia, già laziale, si dà del tu a tutti] a chesta, nun me la fa vedé cchiù! (p. 52)
Eugenio Franchini, padre dello scrittore-io narrante, nel libro è una figura più sbiadita caratterialmente e silenziosa in confronto a donna Angela, ma è l'uomo che ha sentito molto più vicino, più affine e, che lo ha aiutato - forse, il dubbio è d’obbligo - a rendere più sopportabile la vita domestica, fino a quando Antonio a diciannove anni non ha deciso di scappare di casa e andare a vivere a Milano. Il destino però si è fatto beffe di lui e lo ha di nuovo riunito ad Angela: sua madre, dopo qualche decennio ha lasciato Napoli per vivere accanto a lui al Nord, a Milano. Nella seconda parte del libro entra in campo un nuovo Leitmotiv della vita di Angela: la contrapposizione tra Nord e Sud, e l’eterna lotta con l’INPS per vedersi riconosciuta la tanto agognata invalidità. E gli scontri non mancano neppure adesso che è invecchiata, anzi:
Avere Angela come vicina di casa significa dormire accanto a un terreno vulcanico, a una fabbrica di esplosivi. Può avere qualche fase di requie, può non succedere niente, ma è solo questione di tempo, e col passare degli anni i periodi di quiescenza si accorciano e i motivi di scontro diventano sempre più futili, ormai non sono più neanche occasioni, pretesti di afferrare al volo, ma faville che viaggiano soltanto nella sua mente. E, per incendiare tutto, le basta solo aggiustare la legna nel fuoco perenne che la divora. (p. 109)
Angela ha di suo un carattere orrendo, impossibile, ma a Milano, consapevole che le sue frasi napoletane, piene di parolacce colorite e spesso incomprensibili la fanno sembrare simpatica, vitale ed energica, calca un po’ troppo la mano e porta all’estremo il ruolo che si è cucita addosso e in cui sembra stare davvero a suo agio: nelle sue sfuriate esagera con la precisa intenzione di dare spettacolo di sé.
In questa parte finale del libro assistiamo al decadimento fisico e mentale di Angela, seguito passo a passo dalla penna di Franchini: il suo viscerale attaccamento alla terra, tipico proprio della mediterraneità, le permette di resistere e prolungare la vita rispetto a suo marito Eugenio a cui quasi non importava morire e se n’è andato nel silenzio parecchi anni prima. Ed è proprio verso la fine del romanzo, che coincide con la morte di questa madre così vulcanica, che troviamo il riscatto di lei, perché sono più chiare le ragioni di quel fuoco che si è portata dentro per tutta la vita e che ha bruciato sì le persone che le stavano vicino, primi tra tutti i figli, ma anche e specialmente sé stessa. Nelle ultime pagine si passa, così, da una forma di odio verso la madre a una qualche forma di comprensione di tutto ciò che lei è stata.
Il fuoco che ti porti dentro non è un libro che parla del rapporto tra madre e figlio, sarebbe riduttivo fermarsi a questo nucleo apparente, ma è il ritratto che Franchini ha voluto consegnarci di una donna cresciuta e formatasi negli anni Quaranta e Cinquanta del nostro Novecento, un'italiana come tante altre di quella generazione, che ha studiato al liceo classico senza poterselo permettere, che ha fatto delle poche conoscenze apprese delle concrezioni sul quadro generale della sua visione del mondo.
Il fuoco che ti porti dentro non è neppure un romanzo su Napoli, o che in qualche modo ne esalti il folklore, poiché la città è vista criticamente da un uomo che da ragazzo si è allontanato per vivere al Nord ed è abituato a guardarla con distacco e spirito critico.
È un libro fisico però, di una carnalità ossessiva e pervasiva, napoletana e italiana, perché è così la protagonista. Nel romanzo la lingua napoletana, trascritta nel rispetto delle norme linguistiche indicate dal professor Nicola De Blasi, torna spesso con i suoi colori e le sue sonorità per rendere più viva e vivace una donna così indimenticabile, pur così lontana da ogni idealizzazione, una vera “sgherra” come amava definirsi:
Sgherri come guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa, prepotenti. Il suono della parola rimanda anche a «sgarro», è assonante con «sbirro», con «ferro», evoca qualcosa di marziale, di metallico, di prevaricatore. A questa risibile albagia paesana Angela tiene sopra qualunque cosa. Ripete «Io so’ sgherra» con una stolida fierezza che neppure il tempo è riuscito ad affievolire; anzi, gliel’ha accentuata. (p. 49)
Il titolo del libro, come lo stesso scrittore non manca di ricordare, è tratto da una tammurriata cantata in una forma molto antica di napoletano, intitolata Vesuvio e che è possibile ascoltare su YouTube: «’o fuoco che te puort’ dint’ o core», il fuoco che ti porti nel cuore, recita la canzone rivolgendosi al vulcano, col fumo o senza fumo, ci spaventa e ci fa diventare folli. Folli proprio come la protagonista, inconsapevole della sua furia distruttiva, di un'energia che è incapace di controllare:
Sono abitati da qualcosa che li consuma. Non è colpa loro, non ne sono responsabili, è come se avessero dentro un fuoco. (p. 110)
Marianna Inserra