La ragazza unicorno
di Giulia
Sara Miori
Marsilio,
aprile 2024
pp. 138
€ 15,00
(cartaceo)
€ 7,99
(ebook)
Per il resto della domenica, non fece altro che riflettere sul discorso di suo fratello. «Tutti, in fondo, desideriamo essere giudicati». (p. 105)
Era il 2021. Dopo essere arrivata alla finale di 8x8 – uno degli eventi letterari legati ai racconti che da anni lo Studio Oblique propone sotto forma di contest – con il suo Camilla, Giulia Sara Miori esordiva in narrativa con Neroconfetto, pubblicato da Racconti edizioni. (A latere, è interessante notare che ad aprile 2024, proprio mentre questo articolo viene alla luce, sta esordendo la vincitrice di quell’edizione di 8x8, Rachele Salvini, con il suo No Big Deal, edizioni nottetempo).
Nella recensione
a Neroconfetto, raccolta di ben ventuno racconti, mi concentravo,
più che sulle trame delle singole storie, sul linguaggio usato dall’autrice.
Miori affrontava infatti temi diversi, che ruotavano intorno all’ossessione, al
soprannaturale, al corpo femminile, e lo faceva con uno stile ipnotico che induceva
alla lettura. Esprimevo qualche perplessità su alcuni racconti – soprattutto sul
numero di racconti, troppi a mio avviso – e concludevo “lodo la sua
voce, lodo la sua capacità di inventare storie, e attendo quindi la prossima
opera”, ben immaginando che sarebbe stata un romanzo.
Dopo tre
anni, dunque, ecco alle stampe La ragazza unicorno, edito da Marsilio. Di
questo libro colpisce immediatamente la copertina. L’immagine – un’illusione
ottica nei toni del rosa e del bianco – non passa inosservata anche ritrovando il
testo negli scaffali di una libreria. È uno di quei casi in cui apprezzarla o
meno è questione di gusto personale e di certo è difficile che lasci indifferenti:
o la si ama o la si disprezza. E l’effetto desiderato, probabilmente, è proprio
quello: attirare l’attenzione sul libro, far sì che se ne parli non solo per la trama, lo stile eccetera, bensì a partire da ciò che
contraddistingue nell’immediato un libro, ossia l’immagine.
Venendo alla
trama, è appena il caso di evidenziare come tutta l’impalcatura della
narrazione sia un espediente per parlare di altro. Ciò che a primo acchito
appare come un thriller/giallo passa presto in secondo piano: a tenere
le redini della lettura non è tanto la curiosità di conoscere il destino del
signor Cattaneo – a conti fatti un signor nessuno, con un lavoro ordinario, un matrimonio
alle spalle, qualcuno che in definitiva a malapena sembra sapere perché si
ritrova al mondo – quanto cercare di sbrogliare la matassa che Miori ha
presentato al lettore. Buona metà del testo scorre tentando di rispondere alle domande
dei due rapitori, i quali sembrano però conoscere già le risposte. Il mistero,
se esiste, non è tale per loro. Lo è per il protagonista, che si ritrova a non
capire quasi mai cosa stia accadendo. E lo è per il lettore, appunto. Quando però
si arriva al finale, sono poche le soluzioni
fornite per comprendere cosa si è letto. La chiave di lettura però non è quella
di risolvere il puzzle. La situazione, che sembra senza via d’uscita, esula dalle
normali circostanze del thriller. Siamo nel mondo del surreale e del grottesco,
fuori da una logica che richieda razionalità. Come in un sogno, tentare di decifrare il significato sarebbe inutile. Meglio viverlo, si potrebbe dire.
Il punto dunque non sembra essere la trama, quanto il tema. Disseminati nella narrazione ci sono indizi che riconducono all’identità personale. La lunga prigionia del protagonista – sin da pagina 1 definito “il prigioniero”, come se questa qualità lo identificasse in toto – in una cella bianca, contornata da pranzi e cene a base di riso in bianco e da un vestiario che rasenta il minimalismo, è di fatto la prigionia nella quale vive chi non ha esplorato se stesso. Il signor Cattaneo (attenzione: a chiamarlo così sono solo i due rapitori), sembra dirci Miori, è un uomo senza qualità, senza passato, senza futuro. Senza pensiero. Guardandosi indietro, gli unici punti fermi sono il lavoro – ma anche qui: neanche troppo, a giudicare dal finale –, il divorzio e la frequentazione con quella che, a un certo punto, si afferma come la ragazza unicorno.
A tal proposito, è il caso di evidenziare come il ruolo della ragazza unicorno sia, in definitiva, non è rilevante. Nell’equilibrio dell’intera narrazione non è immediato comprendere quale sia il suo peso. Si potrebbe quasi pensare a un MacGuffin, ossia un espediente che serve solo a dare il la all'azione senza ricoprire un valore fondamentale nella storia (quasi l'opposto della famosa pistola di Čechov che, se compare, prima o poi deve sparare). Anche in riferimento a questo, il finale non è univoco. Al lettore, sembra dire l’autrice, sta il compito non tanto di risolvere il puzzle quanto di dare un senso al tutto. È un gioco, in fondo. Bisogna però accettarne le regole.
Prima di
concludere, un passaggio di volata sul linguaggio. Ciò che in Neroconfetto
dava spessore al tutto era certamente la costruzione delle frasi. L’ossessione
era al centro di ogni cosa e partiva dalle parole stesse («E le albicocche, le
ho detto, e le albicocche, Camilla? A maggio dobbiamo comprare le albicocche
acerbe, ti ricordi le albicocche, Camilla?», per citare solo un breve passaggio
del racconto vincitore del contest 8x8, nonché uno dei migliori racconti della
raccolta). La ripetizione era parte integrante della narrazione. A distanza di
tre anni, sembra non esserci più traccia di
questo aspetto sperimentale, almeno non nell’uso del linguaggio. La sperimentazione
– il perturbante, l’ossessione, il grottesco – si è spostata dalle parole stesse alla
struttura del romanzo. Il risultato è un linguaggio molto più minimale, quasi
asettico a tratti – coerente, c’è da dire, con il bianco della copertina e
della cella in cui è rinchiuso il protagonista –, usato per descrivere
situazioni surreali o comunque fuori dall’ordinario. Lo spazio della confusione
e dell’incertezza non è, in sintesi, nell’uso delle parole quanto nell’incapacità
di comprendere appieno ciò che sta accadendo. L'incertezza è interiore.
In conclusione,
La ragazza unicorno è un testo che, dietro un’apparente semplicità linguistica
e di trama, nasconde un abisso in cui è facile perdersi. Il gioco con il
lettore non ha regole semplici e in nessun luogo si fa il tentativo di andare
incontro a chi rischia di perdersi. È un romanzo nel quale la trama non ha rilevanza e tutto ciò che compare ha valore puramente concettuale.
Una cosa è certa, in ogni caso: i lettori dei racconti che Miori ha scritto negli anni troveranno qualcosa di diverso da ciò a cui erano abituati. Se sia un bene o un male, sta a loro deciderlo.
David Valentini
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