L'albero del Ténéré
Dimenticare il proprio passato richiede sempre un prezzo da pagare e non è mai una soluzione definitiva, perché la vita e il tempo passati sono come radici che riusciamo a tenere invisibili e sotterranee, permangono nel presente per riaffiorare in superficie attraverso flash della memoria involontaria, una fotografia, un profumo, un colore, una melodia. Proust lo sapeva molto bene: il passato sa aprire con poco dei varchi nella nostra vita presente.
Il secondo romanzo di Alessandro Andrei, L'albero del Ténéré, pubblicato da Wojtek quest'anno, presenta una storia che parte proprio da un ricordo sfocato per poi prendere avvio scorrendo su due binari temporali diversi. I protagonisti sono due: Ernesto Furlan, detto Hervé, e suo nipote Antoine Donizzetti, voce narrante che sorprendiamo nelle prime pagine intento a combattere una crisi di ansia notturna:
[...] chiudo gli occhi, inspiro, lascio entrare i pensieri, espiro, aspetto che si dissolvano, mi dimentico di esistere. Sdraiato e immobile, funziona, mi dico. È stato semplice. E invece no. Un'immagine ancora sfocata sembra non volersene andare. Riemerge da chissà dove. Spinge per farsi strada. Di tutte quelle che entrano ed escono dalla mia testa con una certa frequenza, questa non si era mai mostrata prima d'ora.
E poi la vedo. Nitida. Riconosco la camera di mia nonna. È stata rifatta da poco: dalla finestra aperta, quella che si affaccia sul boulevard Clichy, i rumori del traffico diventano eco; [...]. Un miasma che prende forma, coagulo di ricordi, una gioia privata del tempo in cui sembro affondarci con testa gambe polmoni cuore e diaframma, il corpo di quando ero ragazzo. E allora esci, mi dico. Esci, non porterà a nulla di buono. Ma sono già in quella stanza, vicino all'armadio, davanti alla cassapanca divorata dai tarli. è lì sopra la fotografia che ha aperto il varco, la posso vedere: Arbre du Ténéré 1971 è scritto a penna nell'angolo in basso a destra, Je t'aime in quello a sinistra. (p. 10)
L'albero del deserto del Ténéré, l'unico di una rarissima specie arborea capace di sopravvivere in un deserto - ora estinto, investito da un camionista ubriaco - è un simbolo per tutto il romanzo, perché rappresenta, per certi aspetti, sia lo zio Hervé sia Antoine. Il primo, ex membro latitante del movimento anarchico Prima Linea, è stata una figura di riferimento per il nipote, un uomo eccezionale, diverso da tutti i familiari, un eroe da emulare, un uomo che non si lascia avvicinare da nessuno, che vive lontano dalla famiglia e dagli affetti. Il lettore, incalzato dallo scorrere delle linee temporali ora del passato ora del presente, che si rincorrono tanto velocemente da creare un'unica, fluida dimensione temporale e narrativa, scoprirà i momenti salienti dell'adolescenza di Antoine, il suo speciale rapporto con lo zio, gli amici scapestrati, l'amore immaturo per Adèle e l'episodio cruciale che segna la fine dell'armonioso rapporto con lo zio Hervé, quello strappo, quel punto di non ritorno che cambia per sempre la vita del giovane nipote. Antoine e la sua famiglia perderanno le tracce di Hervé, per vent'anni non sapranno nulla di lui, fino al momento in cui non giungerà al nostro narratore una lettera dell'avvocato Arturo Delli Carri, che, informandolo del decesso dello zio, lo invita a recarsi a Marrakech, in quanto erede, per conoscere le ultime volontà del defunto.
Nella narrazione del tempo presente, Antoine Donizzetti è un uomo che arranca nella vita come nei sentimenti. È un broker di borsa prossimo alla catastrofe, in quanto coinvolto con il direttore della società per cui lavora in alcune attività illecite. Il suo matrimonio con Francesca è giunto al capolinea: le incomprensioni sono troppe, lui sembra distante e soprattutto, nonostante siano passati diversi anni, non ha mai voluto un figlio, per timore - parole sue - di mettere al mondo un altro infelice. E Francesca, che desidera stavolta diventare madre, dopo l'ennesimo litigio, lo lascia.
«Il problema è che tu non parli. Tu sei fatto così, te ne stai lì, guardi, osservi e alla fine non riesco mai a capire che cazzo pensi». Riposi un contratto sulla scrivania. Sollevai la testa e lei riprese. «È che tu non permetti a nessuno di avvicinarsi, lo capisci? È questo che fai, e io sono stanca, Antoine, stanca». Era a un metro da me, Francesca. Il corpo teso, reclinato all'indietro, i pugni chiusi; a guardarla nel suo insieme, esprimeva una ferocia di cui non la credevo capace. Gonfiò il petto. Fece per ricominciare, si arrestò con le braccia lungo i fianchi. [...] «Potresti almeno ascoltarmi mentre ti parlo?» Si piegò in avanti, le nostre bocche vicine: un sollievo brevissimo, poi un «allora fottiti» appena sussurrato spezzò l'illusione di una tregua. Erano le nove di mattina. Non mangiavo un pasto completo da due settimane. Da quattro avevo di nuovo smesso di dormire. (pp. 20-21)
Antoine fa uso di Xanax e di vari ansiolitici per andare avanti nella disperata ricerca di sanare il rapporto con Francesca e di dimenticare il suo passato, soprattutto di dimenticare per sempre suo zio Hervé, che riemerge, invece, prepotente grazie ai ricordi e alla lettera dell'avvocato. Il lettore scoprirà, come si è detto sopra, che in fondo Hervé e Antoine sono più simili di quanto il secondo riesca ad accettare, sono entrambi, per motivi diversi, due solitari, due alberi di Ténéré, in mezzo al deserto della loro solitudine.
Per una serie di vicissitudini che lascio al lettore il piacere di scoprire, anche Antoine, inconsapevolmente, prenderà una strada che lo allontanerà, proprio come aveva fatto lo zio Hervé, dal gruppo di amici e dai familiari, con la pesante differenza che le motivazioni di tale stile di vita nel caso dello zio erano legate a degli ideali, quelli dell'anarchico latitante, quello di colui che non ha altra scelta se non seguire la massima λάθε βιώσας , ossia il "vivi nascosto", di Epicuro. Antoine attraverserà la tempesta dei ricordi e del passato e si recherà a Marrakech dove, grazie alle persone che avevano conosciuto Hervé, riuscirà a trovare le risposte alle sue domande e a capire che alcuni uomini che abbracciano un ideale non hanno possibilità di scegliere e devono «abitare il vento»:
«A volte non si tratta di quello che si vuole, Antoine, ma di quello che si può. In quegli anni non avevamo scelta. Cantavamo Bocca di rosa alle manifestazioni, eravamo convinti di avere ragione, e non potevamo fare in altro modo, tutto quello che avevamo... era un vento da abitare» (p. 127)
«Abitare il vento» è l'unica scelta, che però condanna alla solitudine, a una vita all'insegna della fuga continua, lontano dagli affetti familiari e dalla possibilità di legarsi a un luogo.
Alessandro Andrei ha scritto un libro intenso, sapientemente architettato, che tiene in equilibrio una narrazione a doppio binario, incalzante, che costringe all'attenzione continua il lettore. L'albero del Ténéré è una storia a più ambientazioni, con un occhio di riguardo al Marocco nella parte finale di cui l'autore rende alla perfezione atmosfere, colori e profumi. I due personaggi della storia convincono, non sono scontati e si fanno portavoci, ognuno con propri ideali e i propri tormenti, dei motivi portanti dell'intero libro: l'impossibilità di mettere a tacere il passato e l'infinita solitudine dell'uomo contemporaneo.
« [...] E il problema, Antoine, è che se ti abitui a stare con te stesso, tutto quello che c'è fuori prima o poi si trasformerà in una minaccia, anche quello che ami di più» (p. 158)
Marianna Inserra