L'infanzia dei cattivi o come divennero così malefici
testi di Sébastien Perez, illustrazioni di Benjamin Lacombe
L'Ippocampo edizioni, febbraio 2024
Traduzione di Giulia Olga Fasoli
pp. 64
€ 19,90 (cartaceo)
Il tratto immaginifico di Benjamin Lacombe, acclamato illustratore francese, e la penna dello scrittore Sébastien Perez si intrecciano ancora una volta in un progetto letterario-grafico di grande cura e bellezza: L’infanzia dei cattivi. O come divennero così malefici, da poche settimane in libreria per Ippocampo nella traduzione di Giulia Olga Fasoli è un volume di grande formato, pensato per i piccoli lettori ma di sicuro fascino anche per il pubblico più adulto. Un libro che ancora una volta coniuga abilmente gusto estetico e una ricerca che nelle opere Perez-Lacombe si fa quasi filologica: l’interesse per il folklore e per la fiaba si sposano infatti all’accuratezza delle ricerche, la lettura dei testi originali – penso per esempio al bellissimo volume Biancaneve, che riprende la fiaba originale, molto più complessa e oscura della versione disneyana che tutti conosciamo – e la calibratura sapiente di parole e illustrazioni. Ecco, mi capita spesso, parlando di racconti, di dire che storia e modo di raccontarla dovrebbero essere intrinsecamente intrecciate, un connubio ideale: volumi come questo fanno qualcosa di molto simile, il testo e le immagini che ne scaturiscono sono legati in modo che va ben oltre la semplice illustrazione di quanto stiamo leggendo. È una differenza sottile, ma importante, l’uno si amplifica dentro l’altra.
Le illustrazioni di Lacombe richiamano anche in questo caso un immaginario che i suoi lettori affezionati non faticheranno a riconoscere, con l’uso sapiente del colore, le atmosfere oniriche, l’oscurità e il gusto per l’ambiguo, l’equilibrio tra dettagli ed evanescenza. C’è poi in questo volume un ulteriore dettaglio intrigante delle immagini, che si lega al cuore della narrazione ossia il racconto dell’infanzia “innocente” dei cattivi delle fiabe: è quell’equilibrio perfetto che Lacombe riesce a creare tra innocenza e oscurità, che ben si esplica nell’illustrazione a due pagine del Lupo Cattivo, le cui fattezze delicate, il tenero sguardo, certi dettagli e l’uso della luce contrastano abilmente con la profondità del bosco in cui è immerso, i simboli della violenza e della morte ben evidenti.
Lacombe e Perez scelgono di raccontare l’infanzia di venti cattivi delle fiabe e del folklore nel momento in cui il seme del male si instilla dentro di loro, molto spesso a seguito di traumi, violenza, ingiustizia. La selezione è quantomai interessante: accanto a personaggi classici e ben noti della letteratura per l’infanzia – se poi sia il caso di definirla davvero così magari ne parleremo in altra occasione – o del folklore occidentale trovano spazio anche figure meno note ma particolarmente affascinanti. Dracula, Polifemo, Il Lupo Cattivo, Loki, Capitan Uncino e la Regina di Cuori, certo, ma anche Yama-Uba, Njeddo Dewal, Baba Jaga, in un catalogo che affonda le radici quindi non solo nella tradizione europea più nota ma anche in quella giapponese (Yama-Uba, terribile yokai), africana (Njeddo Dewal, da storie orali del continente africano), slava (Baba Jaga). Mostri che hanno molti nomi e che fanno parte del folklore e della letteratura italiana (il Babau, ripreso anche da Buzzati in un racconto omonimo contenuto ne Le notti difficili), o che ci portano al cuore della giungla indiana (Shere-Khan la tigre), alla mitologia classica (Ade) o indietro nel tempo fino a regni perduti (Seth, fratello della divinità egizia Osiride).
Di tutte queste figure evocate da Perez e Lacombe, quelle che personalmente mi hanno colpita di più, per tutta la serie di rimandi e spunti che contengono in sé, sono quelle femminili, e che ben esemplificano a mio avviso una delle caratteristiche che lega la maggior parte di questi personaggi: prima di diventare adulti malvagi hanno subito delle ingiustizie, sono stati feriti, derisi, umiliati o, molto spesso, si sono scontrati con la brutalità dell’uomo o dei loro simili.
In quest’ottica tra i personaggi più interessanti è Yama-Uba, essere soprannaturale del folklore giapponese che protegge le foreste dai bracconieri. Spuntata «come un fungo dal suo letto di muschio», Yama-Uba ha le sembianze di una bambina-donna bellissima, l’aspetto fragile, in apparenza innocente, perfettamente integrata nella foresta nella quale è nata. Ma l’incontro con la violenza dell’uomo, la brutalità dell’uccisione degli animali a opera dei bracconieri, sveglia in lei la sete di vendetta e di sangue, che alimentano una forza sconosciuta e devastante. Un demone vendicatore, multiforme – può assumere le sembianze di una fanciulla o di una fragile vecchietta – che Lacombe evoca nell’oscurità più fitta del bosco, il rosso della veste e delle labbra a spiccare sulla scena che è anche un richiamo diretto al sangue, alla violenza. Bellissima e inquietante, come lo è anche Njeddo Dewal, nata da un uovo e che il dio supremo Gueno presenta come la «madre di tutte le sciagure». Strega dai tre occhi, conosce la profondità del mondo e di tutti i pensieri e si aggira per la savana punendo «i difetti e le ingratitudini degli uomini». Una divinità severa e implacabile ma a suo modo giusta nel considerare innocenti e colpevoli. Sarà un tradimento, da colui di cui più si fidava, a scatenare l’ira cieca, il desiderio di vendetta e distruzione, ma anche in un certo senso a renderla libera.
Quanto spesso, nelle fiabe, sono gli uomini e le loro menzogne, il loro egoismo, a portare alla rovina? Le loro parole a tramutare una principessa in una strega cattiva? I loro inganni a trasformare la bambina nata in una «terra verdeggiante» in una donna verde di rabbia?
C’è qualcosa di più della semplice fascinazione per i cattivi delle storie che avvince il lettore adulto di questo volume, ammaliato dalle splendide illustrazioni ma anche dalla stratificazione di ciò che i brevi brani che lo compongono riescono bene a evocare. Quello che abbiamo tra le mani, quindi, è ancora una volta un testo dalle letture molteplici, di innegabile bellezza estetica ma anche il mezzo per soffermarsi sulla complessità di sentimenti e azioni, sulle conseguenze di certe scelte, sulla violenza generata dal dolore.
Godibilissimo, sì, ma niente affatto superficiale.
Debora Lambruschini
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