Su CriticaLetteraria Mattia Grigolo è stato seguito sin da La raggia, quel suo esordio tanto atteso da chi, come me, frequenta il vastissimo mondo delle riviste online. Da poco, per i tipi di Fandango, ha visto la luce il suo terzo libro, Gente alla buona: leggendo i tre testi dello stesso autore è impossibile non notare un percorso e una voce che vanno rinsaldandosi a ogni passo.
L'idea di questa chiacchierata nasce proprio da qui: capire come le cose sono cambiate negli anni per Mattia Grigolo e e in che modo le pubblicazioni hanno contribuito a costruire la sua visione del mondo letterario.
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Ciao Mattia. Tu hai esordito nel 2022 per Pidgin con un romanzo breve, La raggia, poi l’anno dopo sei uscito per Terrarossa, stavolta con una raccolta di racconti dal titolo Temevo dicessi l’amore. A marzo di quest’anno, infine, hai pubblicato per Fandango Gente alla buona. Cosa è cambiato fra la pubblicazione del primo libro e quella del terzo per il Grigolo autore e il Grigolo persona?
All’inizio, da ragazzino, ho sognato di diventare uno scrittore, poi ho smesso di sognarlo, non ci ho più creduto e ho preso altre strade, ma non ho mai smesso di scrivere. Ho cambiato molte vite, è stato il bello di quello che sono diventato, di quanto sono cambiato. Poi quel sogno è tornato e si è realizzato. Fa sempre così strano dire alla gente: sono uno scrittore. Forse essere scrittore non esiste o quantomeno non si può definire, collocare, etichettare. Io, a conti fatti, non definirei, collocherei, etichetterei nemmeno la filosofia. È un discorso complesso che, inserito nella prima domanda, crea una premessa ostica. Difatti non lo affronterò. La verità è che non sono cambiato molto come persona dal primo al terzo libro, quantomeno non sono cambiato come persona in conseguenza ai libri che ho scritto. La persona è composta da molto. È aumentato il grigiore della mia barba, per esempio. Sono diventato più paziente, un poco di più. Ma non è merito o causa dei libri che ho scritto. Come autore sono cambiato molto invece, mi sono evoluto e ho capito che non ho una direzione quando scrivo. Ho qualcosa che tratto con più frequenza e qualcosa a cui mi appoggio: l’utilizzo che faccio del tempo e dello spazio e un certo tipo di costruzione del dialogo. Mi vedo come un autore che scrive meglio rispetto al primo libro. Questo non significa che l’ultimo sia il più bello. Quello che preferisco resta il primo, lo ammetto.
Soffermandoci ancora sulle tue pubblicazioni, vorrei chiederti di dirci qualcosa sul diverso modo di lavorare delle tre case editrici, magari raccontandoci un aneddoto per ognuna soprattutto sulla fase di editing.
Sono tre case editrici diverse tra loro, anche se Pidgin e Terrarossa, essendo entrambe indipendenti, hanno un approccio simile. Diverso è per Fandango. Con Stefano Pirone di Pidgin ho un rapporto speciale, sono molto legato a lui come persona, perché si è fidato di me fuori e dentro i suoi progetti e da sempre mi supporta. Difatti collaboro con lui già da diverso tempo come editor: da qualche mese mi ha affidato la curatela di una nuova collana della casa editrice, che si chiama Stormo e si occupa di romanzi brevi/novelle con un approccio underground. Le prime due uscite sono previste per il 2025.
Giovanni Turi di Terrarossa è una persona, invece, a cui mi sono
da subito affidato anima e corpo. È un trattore quando lavora e quanto ami il
suo lavoro si percepisce in ogni suo gesto. È quel tipo di editore dal quale
prendere inspirazione se si vuole imparare quel tipo di lavoro. Ha però un modo
buffo di trattare la fase di editing, glielo dissi anche prima che uscisse la
mia raccolta. Lavora con i colori, non utilizza, per esempio, la modalità
suggerimento/commento di Word, ma scrive, evidenzia, sottolinea, grassetta, con
colori diversi, direttamente all’interno del testo. È alla vecchia. Devo dire
che inizialmente è stato macchinoso, ma poi ho capito il motivo per cui lavora
in questo modo. Risulta tutto più pulito.
Fandango, come dicevo, è un altro paio di maniche. I miei
contatti, finora, sono stati con la editor, Lavinia Azzone, e con il responsabile eventi e social media manager, Riccardo Cataldi, entrambe due persone davvero professionali. Lavinia
mi piace molto, è il tipo di persona che sa come gestire gli autori. In realtà
non è una di molte parole e, anche quando lavora, tende a non dilungarsi. Però
ti mette al sicuro. Io sto bene con le persone di poche chiacchiere, che ti
dicono quello che ti devono dire e non di più. Lavinia è così, chiacchiera
poco, ma sa dove andare a parare.
In La raggia (qui il mio articolo al riguardo) leggiamo il diario segreto di un adolescente particolarmente turbolento. Come nasce l’idea di raccontare una storia così “oscura” (come ho scritto nella recensione al tuo libro) attraverso questo artificio letterario?
L’idea de La Raggia nasce quasi per caso. Stavo leggendo un
libro di Erri de Luca; uno degli ultimi racconti di A grandezza naturale
è una sorta di biografia “al contrario”. In quel momento ho pensato che mi
sarebbe piaciuto fare una cosa simile. Scrivere una storia che partisse dalla
fine per arrivare all’inizio. Una sorta di Irreversible di Gaspar Noè. Ho
pensato che sarebbe stato bello provare a ideare un noir che cominciasse con una
tragedia già compiuta e, per rivelarla, si dovesse tornare indietro a svelare i
motivi per cui si fosse arrivati alla tragedia stessa. Poi ho pensato che la
cosa più naturale da fare per riuscire in questo tipo di giochino, fosse di
raccontare in forma diario: avere la possibilità di appoggiarsi a delle date mi ha consentito di semplificare il processo di manipolazione del tempo e dello
spazio, cosa che da sempre amo fare quando ragiono sulla mia narrativa.
Riguardo le tematiche che ho trattato all’interno de La Raggia, avevo voglia di
parlare della rabbia, quella cosa spesso incontrollabile, che governa,
sopprime, talvolta, ogni altra emozione. Avevo anche voglia di raccontare una
storia con una voce nuova, che non avevo mai usato, una voce non mia, al limite
dell’analfabetismo. In definitiva, avevo voglia di sopprimere ciò per cui mi
ero impegnato a scrivere fino a quel momento: scrivere bene, scrivere regolare,
fidarmi del lettore.
Temevo dicessi l’amore (qui l'articolo di Daniele Scalese; qui, invece, il mio articolo su Altri Animali) è una raccolta di racconti, sì, ma particolare: tutti vedono protagonista, direttamente o indirettamente, Ofelia. Questo personaggio fa da fil rouge delle quattordici storie le quali, messe insieme, creano una forma particolare di romanzo. Sappiamo che alcune di queste storie sono anche apparse su rivista (Crack, inutile): avevi dunque in mente il percorso di Ofelia già prima di cimentarti nella scrittura di questo testo?
Assolutamente no. Alcuni dei racconti che compongono la
raccolta – o come qualcuno l’ha chiamato: romanzo di racconti – sono stati
scritti diversi anni fa, pubblicati su riviste oppure abbandonati in una
cartella del computer. Solo dopo diverso tempo mi sono accorto di ciò che stavo
facendo: ovvero scrivere sì racconti diversi tra loro, ma che avessero qualcosa
di comune. La più evidente è il personaggio principale. Quando ho compreso questo
processo ho anche capito dove volevo andare a parare e cosa volevo da quelle
storie – da quella storia a tasselli. Volevo raccontare la morte attraverso la
vita. Volevo raccontare i fantasmi, i ritornati e quelli che non se ne sono mai
andati. Volevo creare un percorso a puntini, come quei disegni sulla settimana
enigmistica.
Gente alla buona (qui la recensione di Daniele Scalese) è un romanzo breve e corale, che abbraccia diversi anni e diversi personaggi. Nella struttura, sembra quasi l’opposto di Temevo dicessi l’amore, ossia sembra un romanzo costituito da racconti perché il focus si sposta continuamente e senza una logica apparente. Come nasce l’idea di questo testo?
Dici una cosa puntualissima: un romanzo costruito da
racconti. Credo sia assolutamente vero. La prima a definirlo un romanzo
cinematografico è stata la editor, Lavinia Azzone, dopo di lei ci sono state
altre persone che l’hanno vissuto come un romanzo molto visivo, quasi una
sceneggiatura tanto è scarnificato nella scrittura. Però, a mio parere,
è come dici tu: un romanzo che è composto da immagini/racconto diverse, che
hanno un collegamento tra loro, come una catena, ma che sono anche uniche, come
fotografie simili, incorniciate sullo stesso muro.
Tanto che l’idea stessa arriva da un racconto breve, di
quarantamila battute, che compone l’ossatura della storia. L’idea di base è
stata quella di raccontare il mio paese di origine, un buchino di duemila
abitanti sputato sulla pianura padana. Era da molto tempo che volevo farlo:
come con La Raggia, per cui avevo sentito la necessità di vomitare fuori
qualcosa, anche con Gente alla buona sentivo il bisogno di fare i conti con un
irrisolto: il mio rapporto con il luogo d’origine e dal quale sono fuggito.
Tutti i tuoi testi sono caratterizzati da due elementi in particolare. Il primo è la violenza. Citando i tuoi titoli, sembra quasi che l’amore della gente alla buona conduca a una raggia (rabbia) inaspettata, qualcosa che d’improvviso sovverte le regole del gioco e manda tutto all’aria. Il male non è mai il male di un personaggio pianificatore, né quello di un dio. È il male di gente che male non vorrebbe fare, eppure si ritrova a metterlo in atto. È così?
È così e credo che in parte sia un processo inconscio, un
urlo. Ma anche la banalità del male: credo che tutti ci siamo trovati, da
qualche parte nel nostro processo di crescita e maturazione, a pensare che non
volevamo farlo. Non volevamo farlo eppure lo abbiamo fatto. Non volevamo
abbandonare il nostro cane eppure lo abbiamo fatto. Non volevamo picchiare nostro
figlio, la nostra compagna, eppure lo abbiamo fatto. Non volevamo arrabbiarci
eppure lo abbiamo fatto. È quell’eppure che determina ogni cosa. "Eppure" è il
sottinteso di un rimpianto. Io forse ho provato a scappare dai sottintesi. Non
sono uno che ha grandi rimpianti, per fortuna, non ho quasi mai provato
invidia. Però mi sono ritrovato spesso a dirmi: eppure… Quindi mi sono chiesto
perché, valutare le ragioni per cui decidiamo di prendere una decisione
piuttosto che un’altra e, ancora di più, il non prendere nessuna decisione e
strisciare invece sullo stomaco, con lo stomaco. Scrivendo La Raggia e Gente
alla buona – che trovo l’uno l’estensione dell’altra – forse ho provato a darmi
una risposta, a cercarla tra le pieghe dei pensieri che scrivendo diventano
nitidi, rallentano, mutano in parola e non soltanto immagine fugace. Sono uno
che pensa molto, a volte troppo. Però sono anche uno che difficilmente si
guarda allo specchio.
Il secondo elemento che caratterizza i tuoi testi è la narrazione non lineare. In La raggia leggiamo i frammenti di diario a ritroso, partendo dalle conseguenze per arrivare alle cause. In Temevo dicessi l’amore il lettore è costretto a un non semplice gioco per ricostruire la vita di Ofelia. In Gente alla buona si va avanti e indietro fra il 1965-1987, il 1995-1996 e il 2019. Perché questa scelta? E come è cambiato il tuo rapporto col tempo negli anni?
Se intendi com’è cambiato il mio rapporto con il tempo
occorrerebbe talmente tanto spazio (e tempo) che quest’intervista rischierebbe
di non essere più pubblicabile. Da sempre sono molto affascinato dal concetto
di tempo. Cosa realmente significhi e quanto realmente sia utile. Gli animali
non hanno il concetto di tempo. Non hanno una parola e una definizione che lo
ingabbi. Per l’essere umano il tempo è indispensabile. Il tempo è Dio, il vero
Dio. È il tempo ad aver creato il dio della Creazione. La Creazione, in fondo,
è l’inizio di ogni cosa, è lo start sul cronometro. Oppure sul conto alla
rovescia.
È per questo motivo che, quando scrivo, amo manipolare il
tempo e lo spazio che, anche in narrativa, risulta essere un concetto molto
interessante. Ricordo un racconto di John Barth, s’intitola Ad Infinitum
e si basa essenzialmente sul rapporto tra due personaggi: due compagni, amanti,
marito e moglie, distanti tra loro dalle estremità di una veranda e un
giardino, giusto una ventina di passi, meno di un minuto di cammino. Lei deve
portare una notizia terribile a lui. Quella notizia non arriverà mai.
Mi rendo conto che, soprattutto nei miei primi due libri, ho costretto il lettore a un lavoro supplementare, a un impegno allegato. Uno sforzo maggiore nel piacere della lettura. Però, allo stesso tempo, credo di aver dato anche, forse, al lettore, una doppia dimensione di ciò che può essere un testo, un romanzo, il libro stesso. O quantomeno ci ho provato. In La Raggia si legge a ritroso, la dimensione si capovolge. In Temevo dicessi l’amore ci sono degli specchi temporali posti in inclinazioni diverse; una casa degli specchi che deforma la concezione che abbiamo del percorso da seguire, in definitiva. Gente alla buona è stato definito, da qualcuno, costruito alla Nolan. Io lo vedo più come un Back to the Future: il personaggio di Martin McFly è il paese stesso nel quale il romanzo è ambientato.
Fra le altre cose hai fondato una rivista, Eterna, un magazine, Yanez, e un hub di approfondimento, Le balene possono volare. Mi concentrerei sulle riviste. Cosa ne pensi del panorama delle riviste italiane?
Sono “luoghi” fondamentali alla formazione di chi scrive,
forse addirittura più determinanti di quanto possano esserlo le scuole e i
corsi di scrittura creativa. Lo credo davvero. Sono però anche un luogo
talvolta malsano, una valigia per l’ego, il deltaplano dell’egomania di chi le
fonda, di chi ci scrive. Sono una moneta che ha la stessa faccia e tu scegli
quella che non c’è.
Per me le riviste letterarie sono state importantissime: non
avrei pubblicato La Raggia se non fosse stato per le riviste
letterarie. Appena posso pubblico sulle riviste, ancora adesso. Amo leggerle,
possederle. Ma, a volte, non amo percepire ciò che sta dietro, nelle persone di
una rivista letteraria. Non succede sempre, ma succede purtroppo. Credo sia una
cosa normale, dopotutto. C’è solo una cosa definitiva, solo una cosa sicura, e
non c’è bisogno di svelare cosa sia E poi sono troppe, davvero troppe. Così
funziona al contrario. Difatti sarebbe dovuto uscire un altro numero di Eterna,
ma credo non uscirà mai.
E ora, per concludere, una domanda semplice: cosa ti spinge alla scrittura?
Il bisogno di comunicare con parole che nella vita reale non
sono mai riuscito a trovare.
Intervista a cura di David Valentini. Ringrazio Mattia Grigolo per la sua disponibilità e gli auguro un enorme in bocca al lupo.