“L’incrollabile pazienza della luce”: “Una vita e altre notti” di Stefania Rossotti

 




Una vita e altre notti
di Stefania Rossotti
Barta, 2024

pp. 144
€ 13,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Non posso tradire il buio, è lui quello che sono. Ci ho chiuso dentro tutto e ho messo a guardia i draghi. (p. 129)


C’è un tu, nell’esordio potentissimo del breve volume di Stefania Rossotti. E poi un io che con questo tu dialoga, in una notte piena di voci, dentro, e di silenzio, fuori. Una donna si sveglia e qualcosa la agita, la muove, la scuote e la accompagna. È qualcosa di noto, ma a cui ancora non si riesce a dare un nome: dolore, angoscia, paura, colpa, inquietudine. Un mix di tutte queste cose: «alzi la voce, tutte le voci che hai, ma non riesci a stupirmi. Ti conosco da troppo, anche se continui a cambiare nome […]. Ti parlo da sempre e non so come ti chiami» (p. 5). È qualcosa che ingombra e azzanna, o si fa blando, a seconda delle occasioni, dello spazio che si sceglie di concedergli, di quanto si è intenzionati a ingaggiare la lotta. È nemica o alleata questa forza oscura che rianima? 

Il lettore – o meglio la lettrice, a cui la scrittura è rivolta, e che subito sente risuonare qualcosa in sé – adotta facilmente il tu della narrazione, poi a capitoli alterni lo vede scivolare nell’io – la focalizzazione interna che contestualizza, presenta personaggi e situazioni. Ad affollare le pagine sono tre donne: contraddittorie, fragili, profondamente credibili nel loro sentire e nel loro relazionarsi l’una all’altra. C’è Lea, ribelle, incendiaria, che porta in grembo il frutto di uno stupro e cerca e al contempo rifugge il rapporto con una madre assente; c’è Marta, che ha sempre anteposto il lavoro, e le donne maltrattate, alla figlia – Marta sicura, Marta netta, Marta che distingue a colpi d’accetta il bene dal male, Marta che c’è sempre stata; e c’è la narratrice, che è amica, e madrina, figura della presenza, della compensazione, dell’accoglienza, ma è anche una donna che non ha potuto essere madre a sua volta e porta con sé delle ferite. 

Con queste ferite, e di queste ferite, comunica ogni notte. E la notte dà, in qualche modo, linfa al giorno, ne orienta i passi. La notte restituisce spessore ai ricordi rimossi, su cui edificare un possibile futuro, una nuova stabilità. Ciò che inizialmente fa paura inizia, poco alla volta, a sembrare imprescindibile. Così, per supportare Lea, la narratrice, che non si lascia mai implicare da nulla per paura di perderlo (di perdere ancora qualcosa), decide di mettere in campo il coraggio serbato per anni, mai veramente dispiegato, e si dimette dal lavoro. È sorprendente, questa scelta, in una donna che pur parlando in prima persona si guarda molte volte dall’esterno, come se non si appartenesse. Il volume è allora innanzitutto la storia di una formazione, di un percorso che la conduca a dare pienezza, rilievo, a quell’io che vediamo pronunciato dal secondo capitolo, che lo porti a rappresentare una vera alterità per quel tu a cui continuamente si rivolge.

Tu non lo sai che cosa sia il sollievo, ma io lo sto ascoltando: per la prima volta nella mia vita, non so che cosa sarò io domani. Non ho progetti. Che cosa ne sarà di me, quella vera? […] Lasciami sperare in quel che sarò domani. L’idea di intravedermi, magari di sfuggita, mentre lavoro o rido. L’idea di sapere che, anche solo per un attimo, ci sarò io, lì, tutta intera. L’idea di sentire che cosa si prova a esistere per come si è davvero. L’idea di me, che grande idea mi pare. (pp. 24-25)
La storia di Lea, la sua fragilità esposta, porta a galla qualcosa di sepolto, nella profondità del passato e del buio in cui annega. La protagonista lo sente risalire a singhiozzi, per lampi di immagini. La notte – l’angoscia – parla in una lingua tutta sua che improvvisamente diventa decifrabile, e lo fa perché non è più possibile rimandare. Serve guardare in faccia se stessi per poter vedere gli altri. E in questo sguardo si annida una nuova forma di consapevolezza:

Solo tu lo sapevi, notte, e adesso lo so anch’io. […] Devo soltanto a te, angoscia, la mia presenza in vita. Sei stata la mia unica forma di memoria, storta e furiosa, analfabeta e pazza, ma devo ammetterlo: non mi hai mollata mai. […] Chino la testa e ti benedico. (p. 61)

Prendendosi cura di Lea, la narratrice si prende cura della bambina, e poi della ragazza, che è stata, quella rimasta sepolta sotto la violenza e l’abbandono, e le macerie del tempo passato. Una vita e altre notti è una storia di sentimenti, più che di eventi. La narratrice, Lea, Marta sono tre donne legate da vincoli più forti del sangue, da una “sorellanza” nel senso più viscerale del termine, e che pure faticano a comunicare proprio quando ce ne sarebbe più bisogno: intorno al dramma di una che catalizza quelli di tutte.

Ciascuna di loro concorre, con il suo carattere e il suo vissuto, alla resa dei conti che è, di fatto, questo racconto, il racconto di un nuovo incontro, di una ricostruzione che è possibile solo insieme, ma partendo sempre da sé, dalla propria vita. La pacificazione passa attraverso l’accettazione, il riconoscimento che il giorno è completato dalla sua notte, che la voce che vi sussurra dentro può essere un modo per restare ancorati a sé, una guida a cui non bisogna necessariamente rinunciare. Solo a queste condizioni si può vedere cos’altro si annida nel buio, oltre alla paura: la luce di una nuova alba, una speranza che possa presto divampare. 

Carolina Pernigo