di Valentina Furlanetto
Laterza (marzo 2024)
pp. 288
€ 20 (cartaceo)
€ 12,99 (e-book)
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La grande intuizione di Basaglia fu quella di iniziare a pensare al paziente non solo come a un "pazzo", ma come a una persona che ha bisogno di cure ma anche di cibo, di una casa, di un lavoro, degli affetti. C'è un grande equivoco che si sente spesso ripetere quando si sente parlare di Basaglia ed è che fosse un antipsichiatra. Non lo era, Basaglia non nega la malattia, ma non la riconduce ad un ambito solo biologico. "A Gorizia - racconterà poi Basaglia nelle conferenze brasiliane - c'era un ospedale di cinquecento letti, diretto in maniera del tutto tradizionale, dove erano usati elettroshock e insulina, un ospedale dominato in primo luogo dalla miseria, la stessa che incontriamo in tutti i manicomi. Nel momento in cui vi entrammo dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria". (p. 125)
Quarantasei ne sono trascorsi dal maggio 1978, anno di approvazione della legge 180 che condusse all'abolizione dei manicomi, legge che porta il suo nome ma che in realtà fu firmata da Bruno Orsini, sottosegretario alla Sanità democristiano. L'Italia, sconvolta dal recente omicidio di Aldo Moro e pronta all'approvazione di un'altra legge storica - la 194 sull'aborto - venne scossa da un cambiamento di cui è impossibile negare la portata rivoluzionaria. Franco Basaglia, insieme alla moglie Franca Ongaro, attivista e politica, fu lo psichiatra che per primo sollevò il velo sulla reale complessità delle malattie mentali, colui che si interrogò sull'istituzione manicomiale e sui suoi compiti, affermando la necessità di offrire cure che andassero oltre la prescrizione farmacologica e la strategia di contenzione per restituire dignità ai malati.
Quest'anno in tanti hanno prestato omaggio alla figura di Basaglia, ancora centrale nei dibattiti sulle malattie mentali. Lo fa anche la giornalista Valentina Furlanetto con il suo Cento giorni che non torno, un saggio che racconta i punti chiave della storia e del lavoro dello psichiatra veneziano e con questi esplora anche le storie di persone come Rosa, coetanea di Basaglia, come lui nata e cresciuta in Veneto e che passò la vita entrando e uscendo dal manicomio.
Furlanetto parla anche di sé dentro il volume: accenna alla propria esperienza di terapia, ai contatti che ha avuto con l'esperienza della malattia mentale, alle ricerche e agli incontri che l'hanno portata a scrivere questo libro e anche al lavoro su altre indagini giornalistiche sul tema, come quella condotta nel 2014 in un manicomio criminale.
Ripercorrendo i decenni in cui l'approccio ai disturbi mentali è profondamente mutato, l'autrice non fa solo una rievocazione storica di queste rivoluzioni, ma le contestualizza attraverso un confronto continuo con il presente. Ne viene fuori una riflessione complessiva sull'eredità di Basaglia, su quello che tutt'oggi la società civile fa fatica a capire, sulla strada che c'è ancora da fare per dare alle persone con disturbi mentali il diritto di condurre una vita sempre più libera, dignitosa e piena:
Periodicamente, come un mantra, si sente evocare la necessità di "fare un bilancio della legge Basaglia". Lo si sente ripetere soprattutto quando avviene un fatto drammatico, la morte di uno psichiatra o un'aggressione. Allora si fanno avanti gli avvoltoi che emergono dall'ombra e parlano della 180 come un errore, uno sbaglio, qualcosa da cambiare [...] Ma bisogna anche dire, con serenità e senza pregiudizio, che sono passati parecchi anni, il mondo attorno a noi è cambiato, la 180 non è completamente applicata, mancano fondi, la cultura del manicomio riaffiora puntuale. (pp. 244-245)
Parlare di Basaglia oggi significa dunque non ridurlo alla dimensione della storica legge ma discutere anche di finanziamenti dedicati ai centri di salute mentale, ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura, capire quali siano le necessità delle strutture pubbliche deputate a svolgere le funzioni di assistenza, quali misure servano per rendere finalmente la salute mentale centrale nei programmi politici, al di là degli slogan e delle azioni di breve periodo.
Cento giorni che non torno ha un'anima molto agile, con dinamismo si muove tra ieri e oggi tenendo sottese alcune grandi domande di fondo. Cosa significa malattia e cosa significa cura? Che dialettica possiamo trovare tra questi due poli? Chi sono i malati di mente? In qualche misura lo siamo tutti?
Sono passati oltre sessant'anni da quando Basaglia entrava per la prima volta al manicomio di Gorizia, "un manicomio alla fine del mondo", come lo definisce Furlanetto nel libro.
Quello che allora lui trovò erano pazienti come Rosa, legati al letto, schiacciati da terapie a base di elettroshock e insulina, alienati, miseri, privati della loro storia, degli affetti e anche dei più piccoli oggetti personali.
Un mondo in tutto e per tutto simile al carcere che il giovane psichiatra aveva anche vissuto in prima persona quando nel 1944 venne arrestato per attività antifascista. "Ospedali e carceri uccidono più di quanto non riescano a curare", scriveranno Basaglia e Ongaro in Crimini di pace (1975), e non si può non riconoscere quanto ancora sia attuale questa affermazione.
Sono passati oltre sessant'anni, eppure il nucleo di tutte queste domande è ancora vivo e irrisolto. Cent'anni di quesiti si affollano ancora e questo libro ci dice che il modo migliore per onorare la memoria di Basaglia, di Rosa e dei tanti pazienti che hanno visto la vita sfiorire nei manicomi è continuare a domandarci, senza sosta.
Proseguire nell'esercizio del dubbio e davanti ai disturbi mentali essere un po' come i vulcanologi che osservano i movimenti della terra, le loro evoluzioni, le segnalano, le registrano ma accettano di non poterle controllare del tutto. Senza semplificazioni, stigmi o chiusure, ma con dialogo, spirito di accoglienza e pratica di civiltà.