Poco più di dieci minuti. Questo il tempo che avevo a disposizione per parlare con Don Winslow, maestro indiscusso del crime, al Salone del libro di Torino per presentare il suo ultimo romanzo Città in rovine, conclusione della trilogia dedicata all'ex gangster ora magnate dei casinò Danny Ryan. E ultimo lo è davvero, perché l'autore ha di recente annunciato l'addio alla scrittura letteraria per dedicarsi all'attivismo politico, nel tentativo di contrastare l'ascesa di Trump. Dieci preziosi minuti, quindi, per i quali ringrazio la casa editrice Harper Collins Italia e l'ufficio stampa, che mi hanno dato l'opportunità di dialogare a tu per tu con l'autore. Discutendo di questo ultimo romanzo, di scrittura, del senso della musica.
È emblematico intervistarla su questo romanzo che chiude la trilogia e che segna anche però il suo addio alla scrittura letteraria per dedicarsi a nuovi progetti. Un libro che è teso tra azione, tra grande attenzione alla costruzione psicologica dei personaggi, introspezione, a partire già dal protagonista, Danny Ryan. Ha inciso l’addio alla fiction con la scrittura di questo romanzo?
Direi di no. Cerco di tenere separate sempre le cose quando scrivo. Però questo libro, questa trilogia, l’ho scritta nel corso di trent'anni, ci ho messo tantissimo tempo; i due libri precedenti li avevo scritti molto tempo prima di questo, perché nel frattempo ho avuto delle difficoltà a trovare un finale per la trilogia. Poi c'è stato il COVID e anche se non voglio dire che sia stato quello che mi ha impattato c'è stata anche la malattia che ha portato alla morte di mia madre. E penso che il fatto che io abbia scritto il libro proprio in quel periodo qualche cosa ha voluto dire, nel senso che sono tornato a casa: me ne sono andato di casa quando avevo 17 anni, sono tornato nel Rhode Island ed è stato comunque un processo importante, perché ero lì a preoccuparmi per i miei genitori, per prendermi cura di loro e quindi probabilmente la malattia e la morte di mia madre, lo stato d'animo nel quale ero al momento ha condizionato il modo di scrivere. Perché forse l'empatia che io ho con i personaggi è stata enfatizzata dallo stato emotivo nel quale mi trovavo.
Restiamo su questo, sui personaggi. Danny Ryan, il protagonista assoluto, è anche un personaggio secondo me straordinariamente umano e complesso. Reale proprio perché sfaccettato. Ed è un po' un antieroe, in un certo senso, non c'è un confine così netto tra giusto o sbagliato, tra bene e male. Per noi è molto affascinante, ma quanto è complicato, se lo è, scrivere un personaggio del genere senza farne uno stereotipo?
Beh, il bello e anche la cosa interessante, difficile di scrivere un libro, è proprio quello. I personaggi monodimensionali non mi hanno mai intrigato e magari funzionano in film o romanzi d'azione, ma io non scrivo quelle cose. Io ho sempre amato invece quella zona neutra, grigia, tra il bene e il male, soprattutto quando di mezzo ci sono delle lealtà in conflitto. E mi interessano quei personaggi che sono portati dalla storia che vivono a chiedersi cos'è la cosa giusta da fare. Soprattutto, come dicevo, se ci sono delle realtà in conflitto. Per esempio il conflitto fra la propria famiglia o la propria organizzazione criminale, il conflitto fra dei valori etici di un certo tipo, oppure la sopravvivenza che va al di là di quei valori. E queste sono le cose che mi interessano, i conflitti che mi interessano e che spero intrighino anche i lettori.
Secondo me storia e modo di raccontarla son due cose strettamente intrecciate, così come l'importanza dello stile con cui si racconta. E questa storia, che rifugge un po' le etichette, è difficile catalogarla perché c'è molto del crime ma non è soltanto quello e si basa su una scrittura molto solida che a me piaceva definire come artigiana. Ma come la costruisce, qual è il processo?
La ringrazio! Beh, quando inizio a scrivere, soprattutto le prime stesure, non ho in mente il lettore per nulla. Quello che faccio è divertirmi, mi voglio divertire e basta e non penso a null'altro. Scrivo molto rapidamente. Però man mano che le versioni si succedono, allora inizio anche a pensare a cosa trarrà il lettore dalle parole che scrivo, che tipo di suono debbano avere. Ed è molto importante per me, per lo meno ci provo, perché le parole devono avere un suono poetico, musicale. Io mi devo chiedere: “ma quello che sto scrivendo adesso rappresenta davvero a livello sonoro la realtà che voglio scrivere?” E quindi mi capita spesso di prendere le distanze dal monitor e di spingermi indietro con la sedia e guardare lo schermo da talmente lontano che non riesco a individuare le parole, vedo soltanto l'aspetto generico dello schermo; se sto scrivendo una scena d'azione, per esempio, mi piace che la pagina sia compatta perché dà una sensazione di continuità, di cose piene di suspense. Se invece devo scrivere una scena un po' più soft, mi piace che ci siano degli spazi. Dopodiché penso anche al suono delle parole, penso ai verbi. Per me è molto importante che i verbi siano quelli più adatti, che rappresentino il mood, l'atmosfera giusta nella scena che sto scrivendo. Se scrivo una scena d'amore voglio proprio che ci siano delle consonanti meno dure, se viceversa la scena è una scena d'azione, voglio che le consonanti siano più forti, più impattanti, e quindi ogni dettaglio al suo posto. Però serve anche, per esempio, non suonare le note, suonare le pause, come faceva Miles Davis, lasciare che il lavoro principale lo facciano le pause, il silenzio, le note più lunghe, melodiche, e avere la convinzione che il lettore lo senta, che colga questa atmosfera e ne sia commosso e trascinato.
Intervista esclusiva a cura di Debora Lambruschini. Si ringrazia la casa editrice e l'ufficio stampa.
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