Venerdì 10 maggio, al Salone Internazionale del Libro di Torino, nello spazio di quiete offertomi dallo stand Q74 di Polidoro Editore, ho avuto l’enorme piacere di poter (finalmente!) intervistare Hilary Tiscione e di entrare nella profondità di Setole, il suo ultimo romanzo pubblicato ad aprile 2024 da Polidoro Editore. Uso la parola “finalmente” perché nel 2021 avevo letto il primo romanzo dell’autrice, Liquefatto, che mi era piaciuto moltissimo e che a più riprese mi sono trovata a consigliare. Dopo aver letto il secondo, mi son detta che era arrivato il momento di incontrare Hilary e di confrontarci sul concetto di verità e vergogna nella scrittura, su quello di casa, sui tripli salti carpiati che si possono fare con la lingua (e che Hilary fa, senza la paura di scivolare sul trampolino) e su come si possano scrivere i colori lasciati da una cintura in cuoio su un fazzoletto di pelle imperlato di sudore o scrivere l’odore del mare in un’afosa serata d’agosto.
Cosa ti ha portato a scrivere il secondo romanzo, dopo Liquefatto? Qual è il tuo percorso di scrittura da Liquefatto a Setole?
Liquefatto ha una struttura molto diversa, anzi, di fatto la struttura non esiste. Ho seguito l’andamento del viaggio, mi sono affidata alla strada, procedevo per quello che il viaggio aveva da offrirmi. Inizia dentro una casa (la tematica della casa torna anche in Setole, è un po’ un’ossessione) nel momento in cui la protagonista prende coscienza della caduta vertiginosa che vive il rapporto con il suo compagno e la conseguente esigenza di fuggire. Da qui parte il viaggio che è un percorso introspettivo, ricco di metafore. La differenza tra Setole e Liquefatto è che Setole ha una struttura molto più complessa. Non mi curavo molto della struttura quando scrivevo Liquefatto, sentivo un fuoco che lasciavo libero. Vivevo un periodo della mia vita in cui ero una furia, un animale selvatico, non riuscivo a occuparmi di me se non scrivendo. Quella storia mi ha salvata: è stato Liquefatto a tirarmi fuori dalla condizione in cui mi trovavo. Quest’idea di una vita che ti scappa dalle mani, di liquefazione appunto, qualcosa che non riesci più a contenere in nessun modo, l’ho voluta mettere nella scrittura. Quando scrivi devi dire la verità rispetto a quello che sei in quel momento, la verità prima di tutto, anche in una storia inventata. Setole ha una struttura ripartita in capitoli che rappresentano i giorni del mese di agosto. Un reticolo di questo genere mi è stato di supporto: sapevo di dover arrivare da un punto temporale a un altro molto ravvicinato, quella limitatezza in termini di tempo ha generato delle parentesi che mi hanno permesso di dedicarmi alle intenzioni della lingua, ai suoi obiettivi e la sua materia. C’erano degli spazi da riempire, non una strada da percorrere, Setole infatti nasce da un'immagine legata al paesaggio e gli ambienti.
Quali sono le caratteristiche per cui si possa considerare una storia vera? In che modo il lettore ne può intravedere i confini?
Quando parlo di verità parlo di un approccio verso se stessi: rimango fedele a quella che sono, non voglio essere un'altra persona, non voglio architettare una storia per farmi apprezzare dai lettori e non sono ruffiana con loro. La scrittura deve essere sentita profondamente, non avere un fine consolatorio. Sarebbe sbagliato pensare: “questo non lo scrivo perché può dare noia a qualcuno, questo non lo scrivo perché se lo legge mio padre non mi riconosce, questo non lo scrivo perché mi vergogno”. Ecco, è bello vergognarsi, nella vergogna c'è un punto di frattura interessante per la scrittura. È importante liberarsi della paura del giudizio: non giudico me stessa e i miei personaggi quando scrivo. Mira, ad esempio, è un personaggio che se lo avessi giudicato non lo avrei scritto. È una persona che genera sofferenza per sentirsi viva, per cui l'unica forma di vitalità che riconosce è quella del dolore e il dolore le è funzionale proprio per questo; non solo lo coltiva dentro di sé, ma lo genera anche negli altri, me compresa.
Parliamo degli spazi. Liquefatto occupa uno spazio molto ampio, che è quello appunto del viaggio, mentre in Setole lo spazio è conchiuso. I personaggi sono incapaci di uscire dal loro spazio (mentale e reale)?
I personaggi sono imprigionati nelle loro vite, addirittura nelle loro stanze a volte. Mira spesso se ne sta nella sua camera da letto per giorni; Lena si chiude nella solitudine della sua stanza o si allontana sul tetto a fumare; Rocco abita in una dépendance; Cino vive appartato al piano terra. In contrapposizione ho mostrato l’altro spazio (le colline dell’isola, la spiaggia, il mare) molto lontano, questa esigenza nasce per la volontà di creare uno stacco netto fra l’anima sospesa della casa e il movimento intorno.
La storia l’avevi già in mente? Come è nata l’idea di raccontare di queste esistenze in bilico, in una casa/prigione che sembra un paradiso?
Ho vissuto fino ai miei diciotto anni in una villa nella campagna ligure, in un luogo dove intorno non c’era praticamente nulla. Una casa enorme, piena di animali. Vivevo un'adolescenza difficile, in quella casa si respirava una mescolanza fra meraviglia e orrore. Setole attinge dalla mia vita, ma la casa in questione nella mia testa l’ho demolita per costruirne un’altra. L’ho pensata alle Hawaii, a Maui. Una grande villa circondata da piante e fiori dove si respira però un clima che oscilla dall’assoluta quiete a una tensione tagliente. In questo libro affronto il tema della morte. La sparizione del padre di Lena esiste perché mio padre è venuto a mancare due anni fa. Ho cercato di costruire un’altra vita per lui e di farlo andare via in un modo che per me fosse accettabile. Per questa ragione, l’uomo che sparisce in Setole non è dichiarato morto ma semplicemente se ne va. Mi piace pensare che sia in macchina, lo penso guidare lungo una strada sconosciuta; magari è già in un altro libro. Sarebbe bello se fosse nella memoria dei lettori. È un modo per non farlo morire. Ho affrontato il tema della morte in questa maniera, fondamentalmente tentando di allontanare la spietatezza inconvertibile del reale, dandomi la possibilità di una separazione che portasse a una rinascita.
La storia si nutre un po’ del mio vissuto, ma ha anche una sua vita che non appartiene al mio trascorso, ha un’energia e una coscienza esclusivamente sua in diversi momenti. Ogni tanto apro e rileggo alcune parti di Setole e capisco che il libro ha il suo carattere, il suo modo di stare al mondo. Non ci sono solo io là dentro, ma la magia che si crea quando la vita di chi scrive incontra quella dei personaggi e tutto si fonde, si mescola in una specie di incantesimo dove lo scrittore si mette a servizio della storia che ha una sua natura, un suo temperamento. La scrittura è proprio mettersi a servizio con attenzione massima nei confronti della lingua. Per me la lingua è la cosa più importante di tutto, non mi interessa che ci sia una trama se non c'è la lingua.
Da sinistra: Lidia Tecchiati con Hilary Tiscione |
Hai parlato tanto della lingua, che è proprio il cuore del tuo libro. È una lingua molto densa, evocativa, che ti fa vivere quello che stai leggendo oltre la semplice immedesimazione. La tua lingua fa sentire gli odori, il sudore sulla pelle, il caldo, fa percepire le sensazioni, il disagio, l’agitazione dei personaggi. È un tipo di lingua che generalmente trova il suo spazio più nella poesia che nella prosa, perché lo spazio di una poesia, di un momento, accoglie in maniera più immediata questa densità di linguaggio. Quali sono state le difficoltà nel mantenere una struttura linguistica così complessa per la durata di un romanzo?
È proprio così. Scrivere in questo modo è molto faticoso, anche a livello fisico, perché il grado di concentrazione è altissimo e anche quello dell'immaginazione. Prima di scrivere visualizzo tutta la scena e mi metto molto in contatto con i personaggi. Faccio un esercizio di concentrazione profondo, la musica per esempio mi aiuta moltissimo a pensare (c’è anche una playlist di Setole!), a entrare nella dimensione che voglio raccontare. A dire il vero non scrivo niente se non ascolto musica. È il motore di tutto, avvia l’immaginazione, la accende. Una pagina diventa un’esperienza di vita vissuta. L’esperienza è di chi scrive ma anche di chi legge; quello che scrivi e quello che leggi lo stai vivendo. Se scrivi di una festa in spiaggia, poco importa che tu non sia lì fisicamente, dal momento che quella spiaggia la vedi, senti il calore dei corpi intorno a te, senti il clima, senti gli odori, quel momento lo hai vissuto. La scrittura dà la possibilità alla tua vita di esplorarne altre, addentrarsi in molteplici esperienze. Nel tempo potrai dimenticare la trama di un romanzo, ma non dimenticherai mai la sensazione che hai provato leggendolo. La letteratura deve generare sensazioni. L'odore si può scrivere, si possono scrivere i sapori, si possono scrivere i colori.
Veniamo ora alle influenze letterarie. Per costruire la tua lingua particolarissima, ti sei ispirata a qualche autrice o autore?
Ho letto Clarice Lispector, lei mi ha influenzata. Mi è capitato di sentirmi un po’ annodata durante la scrittura e le sue parole in quei momenti erano un balsamo per la mente. Questo con la dovuta cautela però, perché lei ti può trascinare in un luogo in cui ti trovi ad annegare, a sprofondare nelle sue parole. Come è giusto che sia, non hanno la funzione di chiarificare le cose, anzi, è un’autrice che ti pone di fronte a continue domande che invitano a perdersi. È nel momento in cui ti perdi che hai esigenza di trovare una strada. Senza questo grado di smarrimento è come se tutto restasse immobile, invece perdere l’orientamento conduce a nuovi itinerari, a una rigenerazione e una crescita personale. Anche Giorgio Manganelli ha avuto un ruolo fondamentale, i suoi giochi pirotecnici, le sue acrobazie linguistiche mi hanno insegnato a osare.
Intervista esclusiva a cura di Lidia Tecchiati - ringraziamo l'autrice e la casa editrice per l'occasione
Foto scattate allo stand Polidoro al Salone del Libro