Kafka
di Mauro Covacich
La nave di Teseo, 2024
pp. 144
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Ci sono libri che arrivano quando se ne ha più bisogno, libri che impastano ciò
di cui trattano tanto con la vita dell’autore quanto con quella del lettore. La
letteratura deve essere un pugno sul cranio, travolgente come una disgrazia,
come la morte che ci circonda, come una scure che cala su di noi, e questo è
ciò che pensava Kafka, che lo scrive in una lettera all’amico Oskar Pollak, ma
è anche ciò che indubitabilmente cerca Covacich in tutte le sue opere,
e l’effetto che queste opere sortiscono su chi le affronta. Nei suoi racconti, Kafka
mostra l’elemento incongruo che mina
alle radici l’ordinarietà di una vita piccolo-borghese, l’orrore che nasce dallo scarto tra l’aspettativa, o meglio la consuetudine,
e la realtà; così può capitare,
una mattina come un’altra, di trovarsi riverso sul letto tramutato in una
bestia immonda, e che questo non susciti neanche troppa sorpresa – piuttosto una
angoscia lacerante per l’impossibilità di andare al lavoro come ogni giorno.
Covacich parla di «verità contro la realtà» (p. 13). E la verità è sporca, sgradevole, disturbante: tutto il contrario di una realtà imposta e perpetrata, dalla patina lucida della pura superficie. I personaggi dei testi dello scrittore praghese, tutti inetti, tutti destinati alla sconfitta, sono alla continua ricerca di un senso, di una risposta circa il loro esistere, ma si scontrano con la vacuità del mondo che li circonda. Li anima un’inquietudine che si scontra con una società che vuole tutti ingranaggi, tutti omologati. Loro sono invece i mostri, i disagiati, gli outsiders che devono essere esclusi perché gli altri possano risprofondare in una quieta, rassicurante normalità. Vivono una continua estraneità, un senso di straniamento che, per lo scrittore boemo, è frutto anche dell’adozione della lingua tedesca:
Ogni lingua è un mondo. Se scegli quella di un altro, ti aggirerai tutta la vita per un mondo non tuo. E anche quando ti capiterà di rispecchiarti nelle vetrine, ti accorgerai che quel tizio riflesso non sei tu. (p. 31)
Se è vero che la letteratura deve fornire le “istruzioni per l’uso del lupo”,
cioè per maneggiare ciò che dell’esistenza è incandescente, inaccettabile e
inaffrontabile, come assumeva un bel saggio di Emanuele Trevi, i racconti di
Kafka, ma anche quelli di Covacich, assolvono perfettamente alla funzione dello
“strappo” pirandelliano, offrono improvvisi lampi di rivelazione, affondi
in profondità sui meccanismi stritolanti del reale. La natura bestiale dell’uomo emerge in molti testi, insieme alla precarietà della sua condizione, alla
vanità della sua pretesa di superiorità. Che il corpo sia castello o sia tana,
il rischio dell’espulsione è sempre imminente («il corpo è la cosa più nostra, il corpo è la cosa più estranea», p.
40).
Se qualcuno ride di fronte ai racconti di Kafka, è un riso
agghiacciato che ha il sentore di un esorcismo, ci ricorda Covacich. Perché,
anche se il volume si intitola Kafka,
e di Kafka in effetti parla – e quanto desiderio smuove nel lettore di correre
a recuperare i racconti, di ritrovare quelli noti e di scoprire quelli ignoti,
da poco riediti in una nuova edizione economica Adelphi, nella versione di Anita Rho – si tratta del suo Kafka, di un Kafka che risuona in lui, e attraverso la sua
mediazione in noi. In un volume così piccolo sorprende un così fitto gioco di specchi, ma solo per un attimo, finché non ci
si ricorda che le rifrazioni identitarie
sono uno dei temi più cari allo scrittore, esplorate a più riprese già a
partire dal Ciclo delle stelle.
All’interno dell’opera, quindi, c’è Kafka – autore che riverbera
la sua condizione nei suoi personaggi, tutti accomunati da una funzione K. che è stigma e condanna;
autore tradito che avrebbe voluto vedere distrutta la sua intera opera; autore
pubblicato suo malgrado – e poi c’è un Mauro giovane che si forma e freme
mentre sfoglia le sue prime pagine kafkiane, che si sente lacerato tra
l’istanza di una devozione al maestro e alla sua volontà e la gratitudine per
il traditore Max Brod, a cui si deve la scelta di salvare dal fuoco le opere di
Kafka, disattendendo alle esplicite volontà dell’amico.
Il percorso critico è solo apparentemente frammentario, ma ha in
realtà una sua linea di continuità
che attraversa i racconti e i romanzi incompiuti: il corpo castello, il corpo
tana, il corpo bambola sono solo alcune delle tappe della riflessione amara di
Kafka su come l’uomo possa vivere su questa terra. Quella di Franz è infatti la
storia di una radicale non appartenenza,
di uno spaesamento che non è mai solo geografico. Spesso i racconti ne indagano
il ruolo: lo scrittore è a un tempo, come ne La colonia penale, la vittima a cui la verità viene iscritta sulla
pelle da uno strumento che è tortura ma costringe anche a una piena assunzione
di responsabilità («il condannato è
l’ipostasi dello scrittore in ascolto del corpo, la scrittura come discorso
delle sue ferite», 75), oppure la cantante del popolo dei topi, che leva il
suo fischio come istanza di sopravvivenza:
L’opera d’arte è un processo. È il risultato di una ricerca personale e solitaria, che tuttavia prende senso solo dall’ascolto di un popolo. […] Lo scrittore scava tutto solo, sapendo di condividere un mondo con i suoi simili in giro là fuori. È proprio perché li conosce bene e ha del mondo la stessa esperienza, che può avvicinarsi al fischio di cui è in cerca. (p. 105)
L’opera di Kafka è quindi percorsa da questo duplice movimento: una tendenza a dissolvere l’individuale nel collettivo, e una di senso contrario che porta a ricercare conferma della propria esistenza attraverso la scrittura, che diventa specchio unificante per un io disgregato:
Nei Diari Franz […] si specchia: dire descriversi non sarebbe corretto perché Franz non si conosce e si affida alla scrittura per guardarsi meglio, per osservarsi dall’esterno, quasi non fosse lui. […] Lui come al solito scava e assiste alle rivelazioni che il suo badile-scandaglio, un utensile magico fatto solo di inchiostro, continua inflessibile a mettergli sotto il naso. (p. 112)
Quello che ne emerge non può ad ogni modo dirsi un quadro definito, semmai un
riflesso inquietante dell’insensatezza che ci avvolge, di quella che a volte ci
troviamo a vivere, o peggio a essere. «Il
mondo o è kafkiano, o non è» (p. 121) conclude Covacich, prima di narrare
una serie di situazioni kafkiane che gli sono capitate e di snocciolare un
provocatorio elenco di Kafkiani, in cui Gesù Cristo è affiancato a Adriano
Sofri, Primo Levi a Lars von Trier, Lady Gaga a Oscar Pistorius. Una conclusione
con tale sequela di nomi non è, in realtà, una vera chiusura: apre, infatti, a
ulteriori domande, chiama il lettore a
interrogarsi sulla storia dei personaggi citati e a individuarne linee di
continuità, elementi dissonanti. L’apertura
alla domanda (o l’apertura in generale, data la frequente incompiutezza) è
una delle cifre qualificanti dei racconti di Kafka, che troppi critici hanno
voluto inquadrare all’interno di rigide griglie analitiche, fraintendendone il senso più profondo, che si annida proprio nella loro insensatezza,
ovvero nella loro incapacità di
rispondere a qualsiasi logica razionale, umana.
È un Covacich illuminato, questo, che condivide ciò che sa e ciò
che ama col suo pubblico. In questo saggio, che si consuma in poche ore non già
per la sua brevità, ma per l’impossibilità di interromperne la lettura, si
ritrova infatti quella scrittura acuta e sensibile che riesce a fare anche di
un testo critico un’opera di letteratura.
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