Un luogo misterioso e inquietante disperso nelle Ande e la storia di Mildred Capa, una vittima o forse una carnefice: "Hai portato con te il vento"


Hai portato con te il vento
di Natalia Garcia Freire
Sur, aprile 2024

Traduzione Lara Dalla Vecchia

pp. 130
€ 16 (cartaceo)
€ 9, 99 (e-book)


Un romanzo breve di 130 pagine che sembrano 700, nel senso più positivo del termine, tanto denso e tanto bello è questo nuovo lavoro di Natalia Garcia Freire, già autrice per Sur di Questo mondo non ci appartiene (febbraio 2022) sempre tradotto da Lara Dalla Vecchia.

Garcia Freire, per chi non la conoscesse, è una scrittrice e giornalista originaria di Cuenca (Ecuador) e si inserisce nel filone "magico" e oscuro di altre autrici come Layla Martinez, autrice de Il tarlo (trovate la mia recensione qui) o Mariana Enriquez con il suo, ça va sans dire, splendido La nostra parte di notte. Un altro autore che mi ha molto ricordato questo testo, nell'ambientazione circoscritta di un paesino misterioso e un po' inquietante, è Corteo di ombre - Il romanzo di Tamoga di Julian Rios (la recensione qui).

La fiera di atrocità che era Cocuán non aveva eguali in quanto a stranezza, chiunque avrebbe pagato per guardarci: avanti, venite a vedere questo villaggio spaventoso. Però a me non faceva più paura. In quel momento non volli più essere cieco, né tapparmi gli occhi, volevo vederli bruciare, ripulire il mondo e lasciare solo le colline coltivate sullo sfondo, quel mondo stupendo senza nessuno ad abitarlo. E allora lo sentii, allora lo udii. Ecco cosa dovevo fare: mettere fine a Cocuán e al cuore marcio di ratto che batteva al centro del villaggio. Era tutto chiaro, finalmente, come se qualcuno mi avesse ululato nell'orecchio, come se qualcuno mi avesse rivelato il grande segreto. (p. 38)

Ci troviamo a Cocuán, un piccolo villaggio sperduto e dimenticato in mezzo alle Ande, e dopo una breve premessa che ci racconta la fine di Mildred Capa, una ragazza del posto depredata e chiusa in convento, si avvicendano otto voci diverse che legano la storia e nelle cui narrazioni tornano i personaggi che popolano Cocuán, per tentare di tirarci per la manica e farci risucchiare da questo luogo misterioso, spazzato dal vento, dove succedono cose molto strane, presagi, allucinazioni, segni divini o forse malvagi.

Essendo un romanzo polifonico, scelta stilistica e narrativa che mi piace sempre molto perché lascia intuire il talento di chi scrive, seguiamo passo passo ora un personaggio ora un altro, tutti ben caratterizzati, con una propria voce, un proprio tono, con dei desideri e delle paure, per lo più legate al luogo, questo mostro piccolo eppure feroce che è Cocuán. Come spesso accade, soprattutto nei testi sudamericani, il luogo è anch'esso vero e proprio personaggio in pena, distrutto eppure pericolosissimo, proprio perché in fin di vita e quindi senza niente da perdere.

Si ha come l'impressione che tutti siano un po' matti, fuori di senno, o come posseduti da qualcosa, in misura meno patologica rispetto a un altro romanzo di questo tipo, come ambientazione e descrizione del male, come Lapvona di Ottessa Moshfeh, o film quali The Village di Mr. Night Shyamalan. Qui, Freire non si concentra tanto sull'orrido o sulla perversione, ma sull'impossibilità a sfuggire a un posto che soverchia le esistenze di tutti. E non solo: sono gli stessi personaggi che ci finiscono con tutte le scarpe, perdendosi nel provare a spiegare cose che non possono essere spiegate

Nel bosco sembra tutto così lontano, ma tu dov'eri? L'ultima a vederti era stata lei, Agustina, che toccava le orecchie di Manzi e ogni tanto tirava fuori un cerchio pieno di becchi di uccelli e lo scuoteva come un tamburello, come se fosse tutto un gioco per bambini. Io ti immaginavo ballare con i morti, con nani e streghe attorno a un cervo, quello che gli antichi dicevano che avremmo incontrato alla nostra morte, nascosto nel bosco, con lo sguardo di fuoco animale; un cervo che è tutte le donne e tutti gli uomini, un cervo che corre e arde inosservato in mezzo al mondo. Non volevo pensare che mi avessi tradito, Tadeo, preferivo credere che fossi morto, come muoiono i bambini nei villaggi dimenticati, per cose senza nome, infestati dai pidocchi, con la febbre che va e che viene: pletorici, abbandonati a deliri purissimi. (pg. 71)

Mildred è solo la scusa che lega tutte le narrazioni e le voci, il vero focus è la morte e il suo mistero. E un linguaggio dell'autrice squisito, poetico, estremamente intriso di realismo magico. Crea in poche pagine un intero mondo fantastico, un mondo che martirizza i suoi abitanti e, al tempo stesso, ne innalza alcuni - come Mildred - quasi a divinità della Natura.
Lo consiglio spassionatamente a chi ha amato i romanzi sopra citati e a chi si perde nelle storie a più voci, un po' creepy, un po' mitologiche. Se avete  apprezzato il suo romanzo precedente, che si soffermava sul conflitto tra uomo e natura, sacro e profano, bene e male, vi piacerà senz'altro anche questo.

Deborah D'Addetta