Di recente mi trovo sempre più spesso nella condizione di dover mettere la giusta distanza da un libro prima di poterne scrivere e darne un parere critico che, mi auguro, risulti puntuale e utile ai lettori. Nel caso di T, romanzo d’esordio della scrittrice angloindiana Chetna Maroo (ma già firma di numerosi racconti apparsi su riviste prestigiose) e finalista al Booker Prize 2023, è una necessità sorta per prendere le distanze dal clamore intorno alla recente pubblicazione in italiano - per Adelphi, nella traduzione di Gioia Guerzoni -, dal chiacchiericcio del web, dalla lunga serie di commenti entusiasti che sono circolati. Messo il giusto distacco, quindi, penso di potermi addentrare nel testo svincolata da influenze e pareri degli altri. Cambiando, almeno in parte, un po’ dell’opinione che ne avevo in principio. Nessuno snobismo, sia chiaro, ma le voci che mi risuonavano in testa nel corso della lettura avevano creato una serie di aspettative che non stavo ritrovando sulla pagina e questo aveva finito per incidere sull’effettiva innegabile qualità del testo. È un romanzo perfetto? È davvero un esordio così straordinario come se ne dice in giro? Forse no, non del tutto almeno. Ma la voce di Chetna Maroo è fresca, il lavoro sul linguaggio e sulle modalità narrative è accurato, frutto di un impegno durato tre anni, tra scrittura e revisione, che la traduzione di Guerzoni ha saputo esaltare.
Eravamo in tre, tutte femmine. Alla morte di mamma io avevo undici anni, Khish tredici, Mona quindici. Giocavamo a squash e a badminton due volte alla settimana da quando eravamo abbastanza grandi per impugnare la racchetta, ma non era nulla in confronto al regime che sarebbe arrivato dopo. (p. 10)
Ma sarà solo una di loro, la più giovane, ad appassionarsi davvero e a dimostrare di avere la tenacia e il talento necessari. Maroo sceglie l’undicenne Gopi come voce narrante e punto di vista sulla storia, dando così al romanzo una caratterizzazione peculiare e una forza che altrimenti non avrebbe potuto avere. Come raccontiamo una storia, da quale punto di vista, con quale voce, è una scelta fondamentale, che influenza profondamente la narrazione: quando ragiono su questo penso sempre a un classico della narrativa occidentale, Il grande Gatsby e a cosa sarebbe stato se Fitzgerald non avesse efficacemente scelto Nick come narratore. In modo simile, Maroo costruisce una storia che solo attraverso la voce di Gopi poteva essere, scandita dai rimbalzi della pallina sul campo a Western Lane, nei sobborghi di Londra dove vive la famiglia, dalle frasi spezzate, dai sentimenti complessi che non comprende fino in fondo, dai mutamenti del corpo che cresce.
La storia esiste tra quelle parole che mancano, le emozioni si esprimono nella fisicità. Non è solo per via del lutto, anche prima della perdita della madre il linguaggio dell’affetto passava più per il corpo che per le parole.
Con papà e gli zii parlavamo sempre in inglese, ma con mamma no perché faceva fatica, anche se capiva. E noi il gujarati non lo sapevamo così bene. Ecco perché ascoltavamo mamma con tanta attenzione e non le staccavamo gli occhi di dosso. Ecco, forse, perché le stavamo appiccicate, perché cercavamo continuamente il contatto fisico. (p. 28)
Dove mancavano le parole, quindi, c’era il corpo, c’erano i gesti; la lingua che diventa «un muro, un ostacolo alla conoscenza e al farsi conoscere», come ha sottolineato Maroo nell’intervista rilasciata a seguito della nomina come finalista per il Booker Prize. E allora sono i gesti, sono i corpi, è la fisicità a prendere il posto delle parole con cui le emozioni possono farsi strada. Ora che la madre non c’è più ognuno di loro cerca il modo per non dimenticare, per stabilire un contatto, tra parole in gujarati, presenze evanescenti, ricordi e dettagli. In punta di piedi si muove il padre, chiuso nel proprio dolore ma fermamente convinto che la disciplina dello squash possa salvarle, salvare tutti loro: «Perché bisogna avere qualcosa […]. Bisogna dedicarsi a qualcosa», da ripetersi come un mantra, dentro e fuori dal campo da gioco. Lì, dove Gopi impara la resistenza, la passione per quello sport e la tenacia nonostante le critiche delle zie che non la reputano un’attività adatta a una femmina. Sempre lì la scoperta del mondo oltre la propria famiglia, oltre quel trio compatto che hanno sempre costituito lei e le sorelle.
Mi domandava se mi ero cambiata dopo l’allenamento e si informava sui compiti di Khush. Era attenta, perfino gentile. A volte sentivamo la tensione in lei, il fardello mentale e fisico di essere quello che non era. (p. 66)
Sono l’attenzione con cui Maroo ha saputo costruire i suoi personaggi, la presa sulla storia che non cede mai al pietismo, la lingua salda, sussurrata, l’equilibrio tra parole e non detto che rendono questo romanzo un esordio tanto interessante, pur se meno clamoroso di quanto in generale si sia detto. Ho usato fino alla fine la parola romanzo, eppure c’è qualcosa in questo testo che ha il sapore della novella: non necessariamente per la sua brevità, quanto per la postura autoriale, per quel frammento che rappresenta contrapposto all’universalità cui tende il romanzo, per la storia sotterranea che corre lungo tutta la narrazione, per le domande che sulla pagina non troveranno piena risposta. E se lo guardo in quest’ottica, se lo etichetto come novella, mi pare il suo potenziale si faccia più forte, i nodi e le tensioni narrative esaltati dalla forma cui appartiene.
E l’immagine di quelle tre sorelle, l’impulso da cui Maroo dice di non essersi potuta sottrarre. Poteva solo ascoltare le loro voci, la voce di Gopi. Poteva solo raccontare.
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