Raccontare […]che hai appena subito del sesso non consensuale, è complicato. Puoi accettarlo, questo?Io ho avuto almeno otto anni, per accettare questo.Oggi ci sono.Ieri era solitudine.
Che forse è il caso di parlare. Sarà che la vergogna proprio non mi piace, che mi sembra solo terra fertile per muri, silenzi, omertà. Soprattutto, terra fertile per la violenza. Perché è la violenza che crea la vergogna. E la vergogna produce la violenza. È un circolo vizioso. […] Bisogna evitare di fare come i bambini traumatizzati che ripetono nei loro giochi quello che hanno vissuto cercando invano di rielaborarlo. Bisogna trovare il coraggio di parlare. Come forse si sarà capito, o forse no, questo è un libro sulla violenza. Ma anche sull’amore. Perché sotto a quella X ci sono entrambi. Nel mio caso, sono convinta che, se non affronto il primo argomento, mai sarò degna del secondo.
Non potendo confidarsi con i genitori, a Valentina rimane il fratello, miglior amico di G., colui che l’ha stuprata approfittando dello stato di ubriachezza e sordo ai suoi fermi «NO»: presso colui con cui ha condiviso tutto non trova però comprensione. Il fratello non le crede. La giovane si trova, dunque, sola, abbandonata di fronte a una ferita del corpo e dell’anima. A nulla possono le forze dell’ordine, anzi, il carabiniere dall’accento campano che raccoglie la sua denuncia di stupro, dopo mesi dalla violenza subita, approfitta del numero di telefono rilasciato da lei per invitarla fuori, dicendole che è molto carina.
X è la cronaca di uno stupro “normale”, quello senza coltelli, senza video da girare al branco, senza morte, ma uccide ugualmente. La prima reazione di Valentina è la dissociazione, forse dettata dallo spirito di sopravvivenza: quando si rende conto che non può opporsi alla mole e al corpo di G., la protagonista si arrende, non prova a resistere, si dissocia dal corpo pensando ad altro, pensando che poi finirà.
Sento umido, sotto di me. Guardo il letto. (Guardalo anche tu, il letto. Guardalo perché qui, su questo lenzuolo bianco, c’è una cosa che non dimenticherai. Qui c’è la prova del fatto che le mie non erano solo parole; che un no, certe volte, è molto di più di una parola. È una barriera. Una resistenza. E il corpo femminile non scherza, quanto a resistenza. […] Come un fiore, un grosso papavero rossissimo, una macchia di sangue è sbocciata sul lenzuolo, a testimonianza di una volontà precisa. La stessa volontà che più volte ho espresso a parole. Completamente in trance, tocco quel sangue – il mio sangue – con un dito. Se c’è sangue, c’è stata lotta. Ammiro il modo in cui il mio corpo ha provato a resistere più di me.
Il romanzo comincia raccontando del forte legame che c’è tra Valentina e suo fratello, di pochi anni minore: un’infanzia felice, fatta di condivisione di scherzi, giochi, persino di una lingua, quella “farfallina”. È il racconto di una famiglia come tante altre, profondamente cattolica, con qualche momento di difficoltà: il padre, viene qui dipinto come presente, amorevole, ma che a un certo punto, si mostra scuro in volto, irascibile, attaccato a una bottiglia che vuota in pochi istanti. Si tratta di un motivo che serve solo per tracciare il filo conduttore che attraversa la vita di Valentina, per preparare il lettore alla violenza fisica vera, contundente e lacerante. La madre è una figura iperprotettiva, bigotta, con cui è impossibile parlare delle prime esperienze amorose, figuriamoci confidarle di essere stata vittima di uno stupro. Rivolgendosi a lei, esclama concitata:
Come potevi capire? Se il sesso è tutto sbagliato e sanzionabile, che differenza c’è tra dirti che ho fatto l’amore e che sono stata stuprata? Tanto, in entrambi i casi, sono io ad aver sbagliato qualcosa. E questa è forse la cosa peggiore e la più sincera che ti abbia mai detto. Una madre giudicante e protettiva ti protegge da tutto e non ti protegge da niente. Se il sesso è tutto sbagliato, allora non lo è mai. Neanche quando non lo vuoi. Tanto è sempre tua la colpa. Sia che scopi, sia che ti stuprano: è sempre colpa tua. E non è mai responsabilità di nessuno, neanche quando lo è. Neanche quando è un reato.
Valentina per molti anni si farà del male di nascosto, martoriandosi a sangue le gambe, mentre nei primi mesi dopo la violenza abbandona completamente il cibo. È il corpo attonito, che continua ancora a rifiutare e vorrebbe distruggersi, sparire, per portare via con sé la bruttura subita. Per fortuna qualcosa in lei comincia a reagire: la denuncia ai carabinieri prima, il distacco economico dalla famiglia per cominciare a lavorare prima come rider per consegne a domicilio fino all’attività giornalistica presso piccole testate. Attraverso il racconto di questi avvenimenti, le nuove amicizie, le disavventure coi diversi caporedazione, scopriremo quanto sia stato difficile per la protagonista arrivare al percorso di liberazione totale dal fantasma di quella violenza che l’ha perseguitata. Un percorso che ha per base sia la necessità di parlare e denunciare, sia il coraggio di liberarsi del guscio e tornare ad amare e avere fiducia in sé stessa e negli altri.
L’esordio di Mira è potente, coraggioso e crudo: non si legge e non si ascolta senza provare dolore. Lo stile gioca con le pause a effetto, tipiche di una scrittura meditata di chi ha avuto modo di macinare emozioni contrastanti, tra il desiderio di morire e quello di riscattarsi, tra la rabbia e il dolore, tra il bisogno di essere capita e la rivelazione di essere stata tradita da chi avrebbe dovuto proteggerla. Tra le pagine i momenti di racconto si alternano a quelli di riflessione, il discorso è sempre diretto e il referente privilegiato è il fratello, quel fratello che l’ha delusa.
È stato allora che ho capito che a ucciderti non è quasi mai l’urto, né il naufragio; è vedere quanto scappa via veloce chi ha una zattera e nessuna intenzione di condividerla. Non è stato lui a darmi il colpo di grazia: sei stato tu.
Marianna Inserra
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