Padiglione di riposo
di Camilo José Cela
Utopia editore, 2024
Traduzione di Antonio Bertolotti
pp. 138
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Se fossimo tutti uguali, a che cosa servirebbero le malattie e la salute? (p. 18)
È sempre difficile raccontare la malattia, soprattutto dal punto di vista del paziente; un tema delicato, che può diventare letterario solo se trattato con profonda sensibilità, senza mai dimenticarsi del senso di estraniamento che alcuni pazienti provano. Questi due elementi narrativi – malattia ed emarginazione - sono le chiavi per avvicinarsi alla lettura di Padiglione di riposo di Camilo José Cela (Premio Nobel per la letteratura nel 1989): un romanzo breve, nel quale l’autore galiziano dimostra l’intensità e la solidarietà che possono nascere in un momento difficile come quello della malattia.
Non ci sono né minuti né ore fra le stanze dei malati, sono loro stessi a provare a darsi (e a dare al lettore) la collocazione temporale; la loro quotidianità è rarefatta, composta da brevissimi incontri tra malati, da terapie e poco altro. Nelle loro giornate, sembra che non accada niente di rilevante, tanto che l’unico momento importante (e quello tanto atteso) è quando s’incontrano nelle stanze comuni.
Tutti sono in attesa di qualcosa: alcuni aspettano rassegnati la morte; altri, la guarigione e altri ancora di uscire dal sanatorio (anche se ancora malati). Emarginazione, malinconia e attesa sono i sentimenti che, però, accomunano tutti i pazienti che si ritrovano a vivere lo stesso dolore e nello stesso momento. A un primo sguardo, tutte le vite sembrerebbero evanescenti, ma tra le righe esiste un mondo interiore che si divide tra il ricordo del passato (quando la malattia non c’era) e l’angoscia del presente, dove ogni giorno potrebbe essere l’ultimo («vivere in questo modo non è vita», p. 80). Sono quindi esistenze che s’incrociano nei corridoi e nelle stanze, ma che rimangono reciprocamente ignote; nessuno, infatti, conosce il nome dell’altro, che identifica solo attraverso il numero di stanza («il mio amico del 52», p. 22).
Il sanatorio è l’unica realtà possibile, quella che vivono ogni giorno, tanto da sentirla ormai «come il cortile di una casa» (p. 25). Tutto, quindi, è affidato alle parole dei ricoverati: diari, lettere, dialoghi sono i mezzi attraverso i quali i pazienti possono esprimere loro stessi. La parola e la comunicazione diventano uno strumento fondamentale per uscire dall’isolamento della malattia, anche solo metaforicamente e per il tempo di una conversazione.
Esistono dunque due punti di vista diversi: quello della tubercolosi (privato e personale di ogni paziente) e quello collettivo della coscienza comune. Al di fuori delle mura, questa malattia non è solo una patologia respiratoria ma diventa qualcos’altro, identificandosi con un tabù che ha attraversato intere generazioni: la malattia mentale. Sì, perché la tubercolosi è vergognosa quanto avere un disturbo psichiatrico: così dietro questa malattia si nasconde lo spettro di quella psichiatrica, tanto che sugli stessi pazienti grava la colpa della malattia.
Ho sentito dire dal medico dire che sono un’isterica, un’isterica senza speranza. Il fatto è che quando si hanno i nervi a posto, tutto quel che si fa o di dice acquista un’aria di assennatezza, di equilibrio, mentre in uno stato d’animo alterato, o raccolto in se stesso, o meditabondo, le cose che si fanno sembrano follie, gesti di persone anormali, pazze, squilibrate. (p. 53)