in

Un’isola incantata tra il sogno di libertà e l’incubo della fame: il promettente esordio di Marta Lamalfa “L’isola dove volano le femmine”

- -


L’isola dove volano le femmine
di Marta Lamalfa
Neri Pozza, 28 maggio 2024

pp. 306
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

A quel tempo, per i settecentotredici abitanti di Alicudi, il mondo era di cinque chilometri scarsi, che nessuno sapeva contare. Insieme a loro, vivevano novecento polli, trentacinque mucche, due tori, trenta maiali, quarantacinque pecore bianche, otto colombi. Per non contare i conigli, che davano solo impiccio e neanche si facevano ammazzare, e i muli, che erano di famiglia. Altro non c’era. Dopo il mare, c’era solo un disegno che marcava i loro confini, messo là per nascondere il vuoto. Non poteva essere altro, bello com’era. (p. 15)

L’isola dove volano le femmine, romanzo d’esordio di Marta Lamalfa, è innestato su un fatto storico poco conosciuto: l’allucinazione collettiva che colpì gli abitanti dell’isola eolia di Alicudi nel 1903, causata dall’infestazione della segale da parte di un fungo parassita chiamato ergot. L’acido lisergico liberato da questo fungo è presente anche nell’LSD e ha sull’essere umano effetti psichedelici. Gli arcudari, che vivevano al limite della sussistenza, ridotti allo stremo dalla fatica e dalla fame, mangiavano questo pane nero che aveva acquisito un sapore aspro, ed erano convinti di vedere uomini mostruosi e le majare, ossia donne che avevano stretto un patto col diavolo, sentivano cadere la pioggia di pietra pomice, apparivano loro gli spiriti dei defunti oppure lamentavano allucinazioni sonore, come il rumore delle catene. 

La leggenda delle majare è tramandata ancora oggi su Alicudi e Marta Lamalfa su questo “pretesto” ha costruito un romanzo molto interessante, dalla storia coinvolgente e dalla struttura ben equilibrata, che regge dalle prime alle ultime pagine. Con una lingua intima, dal sapore antico, sa trasportare il lettore direttamente su quell’isola incantata, che all’epoca non era stata neppure esplorata tutta dai suoi abitanti, dediti all’agricoltura, al pascolo e alla pesca delle tartarughe.

L'isola dove volano le femmine è la storia della famiglia Virgona, conosciuta come gli Iatti e come «i gatti devono accontentarsi dei topi» (p. 267): gente semplice, che vive di fatica e di stenti, lavora una terra che non gli appartiene e in base al contratto di mezzadria con il padrone don Nino, non ha diritto a beneficiare se non a una parte del raccolto. Il libro, che contiene in ouverture l’albero genealogico della famiglia protagonista a cura di Chiara Massimiani, si apre con il funerale della giovanissima Maria, sorella gemella di Caterina e figlia di Palmira e Onofrio. Maria è morta di sifilide, a quanto pare, e la sua famiglia è convinta che sia stata tutta colpa di Ferdinando, un giovane ribelle napoletano, che sconta la sua pena nel castello di Lipari: i due erano stati visti mano nella mano qualche giorno prima della comparsa della malattia che ha portato via la fanciulla, non ancora in età da marito. In casa, quella che non riesce a trovare pace è proprio la madre Palmira, che ha in grembo il quarto figlio:

«M’ha ucciso la figlia quel disgraziato. Me l’ha disonorata e poi me l’ha uccisa. Che disgrazia che mi doveva capitare. Ma io l’ ammazzo, quanto è vero Iddio. L’ ammazzo con queste mani mie se si ripresenta. Si pensava che mia figlia una donnaccia qualsiasi era. Oddio non ci voglio pensare, poveri noi» e alza le mani al cielo. «E tu? Niente sapevi? Vi raccontavate tutte cose!» Palmira si gira verso Caterina. Lei scuote la testa, continuando a seguire a terra le linee misteriose delle ombre e come finiscono per toccarsi. «Nessuno niente sa, nessuno niente» continua Palmira. (p. 20) 

In realtà Caterina aveva giurato alla sorella che le aveva confidato la verità che non avrebbe proferito parola su lei e Ferdinando, perché i familiari non avrebbero capito. Sin dalle prime pagine il lettore scoprirà che il giovane napoletano non è un delinquente, ma un sognatore che ha studi alle spalle e ha provato a organizzare con altri giovani la rivoluzione, una protesta contro i privilegi delle classi più abbienti, senza riuscirci. Ferdinando era davvero innamorato di Maria, ma non aveva mai osato sedurla e, nonostante sappia di essere odiato dalla sua famiglia, durante il romanzo farà spesso ritorno ad Alicudi e riuscirà piano piano a farsi ascoltare da qualcuno della famiglia degli Iatti, e precisamente - mirabile dictu - da Onofrio, il mancato suocero. Nel frattempo sulle spighe di segale del campo di don Nino stranamente sono cresciute delle protuberanze nere come il carbone che gli arcudari chiamano, per questo motivo, «tizzonare».

Da quando fra la segale sono arrivate le tizzonare, a Caterina piace meno la mietitura. Perché quei vermetti neri e rinsecchiti che escono dalle spighe le mettono paura, e non li vuole in nessun modo toccare. (p. 73)

I campi  di segale sono marci, ma non bisogna essere schizzinosi, basta non annusare le spighe e respirarne la farina, tranquillizzano i maschi della casa, perché è vero che il marcio fa male, «ma più male fa la fame» (p. 74) dice Nonnonardo ai nipoti. Ogni giorno la cantananna, la bisnonna, fa le trecce strette a Caterina e le racconta delle donne che volano, le majare, le quali, dopo essersi sparse sul corpo un unguento speciale - tra gli ingredienti del quale vi è anche il sangue di un uomo - spiccano il volo nude e vanno a Palermo tornando con viveri e bevande per farne poi un banchetto.

Hanno fatto un patto col diavolo, e a queste cose, ricordatevelo sempre, non c’è riparo. Poi, per divertirsi fanno certi nuvoloni in mare che se sulla barca non c’è un tagliatore di trombe rischiano tutti di accappottarsi. Una volta una femmina l’hanno ritrovata in Calabria, coi capelli attaccati a un legno, dice. Non sono come noialtri, bisogna starci lontani». (p. 38)

Ci sono majare ad Alicudi? Certamente. Come è facile immaginare, da che mondo è mondo, una donna senza un uomo, che rimane libera e indipendente, è sempre stata malvista nelle antiche comunità patriarcali. In quel villaggio di poche anime, vi sono diverse zitelle e, tra queste, conosceremo Calòria, considerata majara dalla comunità arcudara. Caterina, complice la fame e l’intossicazione dal pane nero, sarà così affascinata da questa figura che sognerà di volare come una majara, di partecipare anche ai sabba con un gruppo di donne volanti e avrà anche spesso occasione di vedere la defunta sorella. 

L’isola dove volano le femmine è la storia di un’isola e di una ragazza: è il racconto di come Caterina Virgona, considerata da tutti ancora carusa, cioè ragazzina, da sola, senza il supporto e i consigli di sua madre Palmira, affronterà il periodo di trasformazioni del suo corpo da bambina a donna. Dietro la metafora della donna che vola, che ha i poteri magici, vi è la voglia di libertà e di riscatto di Caterina e di tutte le donne costrette a vivere ad Alicudi senza vedere neppure Lipari o Palermo, piegate sui campi a mietere segale infestata o nelle acque del mare cercando di catturare tartarughe senza farsi tranciare le dita. È il sogno segreto di chi vorrebbe ricongiungersi all’amato, per sfuggire a un matrimonio fatto in fretta e senza amore,  alienante e arido, è la voglia di riscatto di chi studia per emanciparsi dalla povertà e dai campi. L’allucinazione collettiva è l’illusione che, come fanno i marinai che spezzano le trombe d’aria, traduce la voglia di spezzare quelle catene sociali che impediscono a chi appartiene a una classe umile di sposare l’amata che invece è ricca. Calòria, Saverio, fratello di Caterina, Nardino, il fratellino storpio, Onofrio e Palmira, Ferdinando e i catenanni degli Iatti sono personaggi indimenticabili, portatori di sogni d’amore e voglia di riscatto sociale.

Quando la luna è così grossa in cielo, le case diventano quasi gialle. E il mare, il mare che di notte sembra risucchianti intero, quando riesci a vedere le piccole pieghe delle onde, lo senti già cullarti e farti passare ogni paura. […] Calòria sa che tutta l’isola parla male di lei, che dicono che ha stretto un patto col diavolo. Ma lei ai diavoli e agli angeli non ci ha creduto mai, e nemmeno all’Inferno e al Paradiso. All’Inferno non ci crede, perché niente per lei, può esistere di peggio di quello in cui già vive.  Quanto al Paradiso, le sembra comunque, da quel che si dice, un posto in cui sono sempre gli uomini a comandare. Che i papi e i preti sempre uomini sono, e questo qualcosa dovrà significare. Lei crede solo alla terra e al mare: dal cielo, non può arrivare che pioggia. (p. 231)

Marianna Inserra