La parte sbagliata
di Davide Coppo
edizioni e/o, 2024
pp. 190
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
È impossibile non sentir riecheggiare nel titolo del romanzo d’esordio di Davide Coppo la conversazione tra i partigiani Kim e Ferriera ne Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Fin da subito, infatti, si mette a fuoco quale sia la parte sbagliata che, in questo caso come in quello, è «la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così». In opposizione a questa coazione a ripetere, a questo rinnovamento ciclico della violenza, appare altresì chiaro quale sia la parte giusta – e non è inutile ricordarlo di fronte alle polemiche che ogni anno infiammano i giorni che circondano il 25 aprile. Il romanzo affronta direttamente il tema del neofascismo, mostrato come un catalizzatore per giovani alla deriva, ma anche come generatore di tensioni sociali. Gli anni in cui è ambientata la vicenda sono quelli di un passato prossimo, più che del presente stretto (gli anni scolastici che vanno dal 2000 al 2006, e che coincidono con il percorso di istruzione superiore del protagonista, Ettore), ma l’operazione non è inedita, e rivela quindi una certa urgenza di denuncia da parte della letteratura odierna (in modo differente entra a gamba tesa sulla questione anche l’ultimo romanzo di Valentina Mira, recensito qui).
Con una struttura circolare che ci mostra fin da subito il punto d’arrivo della traiettoria personale, di contro-educazione, di Ettore e che vuole prescindere da qualunque tentativo assolutorio, La parte sbagliata ci vuole però muovere all’indagine di dinamiche che possono coinvolgere giovani di ogni estrazione sociale e provenienza culturale, e che spesso non hanno – se non indirettamente – matrici di natura politica.
Perché si diventa fascisti […] a quattordici, quindici anni? Non per un’illuminazione: non funziona come per l’amore, e non funziona come per la fede. Ma nemmeno è stato il punto di arrivo di una crescita ideologica. Piuttosto, qualcosa che aveva a che fare con l’estetica, e molto con l’identità. (p. 66)
Nel liceo classico a cui si iscrive Ettore, frequentato dalla Milano bene, il gruppo di Giulio – una Federazione la cui appartenenza politica appare evidente quasi subito dai simboli che esibisce – non è popolare, così come non lo sono gli ideali che sostiene. Loro sono «i reietti, i disprezzati» (p. 106), ma questo non fa che aumentare il senso di unità interna, in opposizione al giudizio che arriva compatto dall’esterno e che, nel caso di Ettore, coinvolge anche la dimensione famigliare, dove gli attriti aumentano in modo direttamente proporzionale alla sua politicizzazione e al collasso del suo rendimento scolastico.
Coppo è molto abile, nel descrivere questo processo tramite il punto di vista
del suo narratore interno, a rivelare l’impasto
eclettico, spesso contraddittorio, degli ideali difesi dal movimento e la
difficoltà a districarli e decifrarli per il neofita. Viene inoltre decostruita
passo passo l’idea diffusa che per combattere il neofascismo sia sufficiente la
cultura. Non si tratta, in realtà, di un processo così semplice, in quanto il
movimento si dota di una propria
cultura, una controcultura manipolata, distorta, che viene proposta come
verità. Ettore, che viene soprannominato ironicamente “l’intellettuale” dai
compagni, studia assiduamente per conoscere le radici dell’ideologia a cui sta
aderendo, ma anche per trovare una mappa grazie alla quale interpretare il
presente. Eppure i suoi studi non sono rivelatori, se non nell’ottica di una
conferma di quanto già instillato nella sua mente. Il suo tentativo è, anzi,
quello di livellare certe incongruenze
che ancora avverte grazie alle informazioni trovate per lo più su internet. Lui
va coltivando l’idea di un «fascismo
moderno, un fascismo giovane» (p. 104), in grado di smarcarsi dai fatti
delittuosi del passato e di agire come forza
rivoluzionaria e benefica sulla società presente, anche se non è chiaro
(neanche a lui) come questo sia possibile.
L’adolescenza è la stagione degli assoluti, e il protagonista oppone con risolutezza il bene e il male, ma fatica ancora a distinguere quale effettivamente sia l’uno, quale l’altro. In questo percorso di controformazione l’esperienza della violenza, che Ettore si trova a fare quasi casualmente, ha il sentore della rivelazione, e si accompagna alla suggestione di un’adesione che deve diventare acritica, fideistica:
era una droga nuova che non avevo mai provato prima e che avrei voluto sperimentare ancora. […] Era un’affermazione di potenza, era sapere di essere capace di fare male, e allo stesso tempo di sapere di essere capace di subire il male. (p. 120)
L’odio proiettato verso i presunti nemici, la cui identità deve essere definita in itinere (si spazia dai comunisti ai capitalisti, per arrivare a lambire anche gli ebrei), e ancora maggiormente quello di cui si pensa di essere destinatari, diventano le forme attraverso cui definire la propria essenza.
Quella di Ettore è un’appartenenza che nasce dal disincanto, e che si scontra con una politica che «tutto [riguardava] fuorché la creazione di un uomo nuovo, incorruttibile, spirituale e luminoso» (p. 171). Anche il gruppo a cui aderisce dimentica ben presto le istanze originarie, si compromette rinunciando alla purezza agognata, agli slanci ideali di una rivoluzione in grado di portare un mondo nuovo: «della mia giovinezza non interessava a nessuno, fintantoché potevo essere un numero da conteggiare» (p. 172). Il movimento, visto inizialmente come occasione di emancipazione dai vincoli di un’esistenza percepita come troppo stretta, diventa una trappola senza via d’uscita, come l’aula in cui Ettore, Giulio e alcuni compagni si asserragliano durante un’occupazione antifascista a scuola.
Nella mia testa prendeva forma anche l’ironia tragica di quella metafora, e si espandeva come una nebbia sugli ultimi miei anni di vita, amore, militanza. Avrei voluto non essere lì in quel momento, perché vedevo con chiarezza quanto fosse stupido esserci. Ed ero triste al pensiero di non poter tornare indietro, e dire: io ricomincio, ed effettivamente ricominciare. (p. 165)
È un mondo, quello dei primi anni duemila, ancora lontano dal digitale, e i
giovani si muovono come meteore alla
ricerca di senso, tra festini pieni di alcol, o droga, e serate passate a
girovagare in Vespa senza meta. Gli adulti
sono per lo più assenti, o ineffettuali. Anche per Ettore la famiglia è più
un punto di disancoraggio che il contrario. I genitori, attaccati alla loro
rigidità borghese, paiono totalmente incapaci di affrontare la sua deriva e i
loro affondi, talora eccessivamente miti, talora sprezzanti, alimentano la sua
rabbia invece che spegnerla. Anche per questo, laddove Giulio e gli altri
camerati vanno cercando politica, lui spera
invece di trovare casa, legami veri.
Ritorna a più riprese il tema del bivio, delle scelte che a posteriori appaiono di facile
decifrazione, ma che sul momento sembrano invece prevedere un tracciato unico
(«i bivi, di volta in volta, mi avevano
condotto a un senso unico, anzi: a una strada senza uscita. Le catastrofi sono
tavole apparecchiate con cura, non improvvisazioni di un giorno nato sbagliato»,
p. 238) e questo contribuisce ad alimentare quell’impressione di ineluttabilità narrativa già presente nell’epilogo
noto dalle prime pagine. L’obiettivo della lettura, che potrebbe risultare più
adatta a un pubblico già adulto che a quello attualmente adolescente, non è
dunque scoprire l’approdo, inevitabilmente tragico, o tragicamente inevitabile,
della parabola esistenziale di Ettore, quanto cercare di individuarne le radici, le cause e i moventi, per cercare per
quanto possibile – pur in un mondo già molto cambiato rispetto a quello
descritto – di impedirne il rinnovamento.