Si è creato un certo interesse intorno all’autobiografia in movimento di Deborah Levy, scrittrice britannica pubblicata in Italia da NN editore: interesse che è tanto di pubblico quanto di critica, al punto che il «Guardian» la considera un vero e proprio caso letterario internazionale, definendo l’opera come «uno dei cento libri fondamentali del XXI secolo». L’attenzione dei lettori e della critica è alta anche nel nostro paese, a partire dalla pubblicazione a febbraio del primo volume, Cose che non voglio sapere, tradotto da Gioia Guerzoni, cui fa seguito adesso Il costo della vita. Accoglienza generalmente positiva che ha a che fare con l’interesse degli ultimi anni nei confronti di una particolare forma di non fiction tra memoir e letteratura, definibile come autofiction: un genere-forma che funge da contenitore di testi anche molto diversi tra loro, per scrittura, impostazione, valore letterario, e che si lega a influenze e istanze differenti: dalla narrazione del dolore al reportage letterario, la sessualità, il tema identitario, l’attivismo, il memoir, il romanzo. È chiaro che in questa vastità si trovano opere assai diverse tra loro ma, generalizzando un po’, appare anche evidente quanto negli ultimi anni vi sia un certo proliferare sugli scaffali di libri che corrispondono a questa etichetta, in linea con l'interesse da parte dei lettori.
L’autobiografia in movimento di Levy si inserisce quindi in questo filone, ma il mio giudizio è decisamente più tiepido rispetto ai critici del «Guardian» e sono molte le perplessità suscitate dalla lettura di questo secondo volume; in Italia la ricezione dei primi due titoli è stata come si diceva in generale positiva, forte probabilmente anche dell’autorevolezza e di una certa garanzia di qualità che la casa editrice suscita tra lettori e addetti ai lavori. Ci sono senz’altro spunti e considerazioni interessanti nell’opera di Levy, ma certe debolezze non possono essere ignorate. Se nel primo volume lo sguardo dell’autrice era principalmente concentrato sul racconto della propria infanzia nel Sudafrica dell’apartheid e l’esilio volontario a Londra, ne Il costo della vita il centro nevralgico della narrazione sono la ricostruzione dopo il divorzio e la scrittura, tra libertà e paure, difficoltà e privilegio.
Avevamo venduto la casa di famiglia. Mi sembrava che tutto quel disfare e mettere negli scatoloni una lunga vita vissuta insieme desse una forma strana al tempo, spingendolo indietro, a quando a nove anni avevo lasciato il Sudafrica, dove ero nata, e in avanti, verso l’ignoto che mi aspettava a cinquant’anni. Stavo smantellando la casa che avevo passato gran parte della mia vita a creare. (p. 27)
La tensione tra l’essere donna e artista – scrittrice in questo caso – non è materia nuova, ma ancora meno lo è il modo in cui tale argomento viene da Levy trattato: tolta l’esperienza personale, superato il racconto privato nato sul filo della memoria, cosa resta in fondo di queste pagine, di questo tema? La riflessione di Levy appare in fondo troppo concentrata su sé stessa: è chiaro che nel campo dell’autofiction questa soggettività sia un elemento peculiare e intrinseco, ma per avere effettivo valore letterario un’opera di questo genere deve saper intrecciare personale e universale. Elemento che di frequente sembra mancare nel memoir in questione e, laddove appare, sono lampi troppo fugaci per reggere l’intera struttura, tanto più che è stata concepita in tre volumi. La stessa idea di narrazione frammentaria era senza dubbio interessante e in potenziale adatta alla tipologia di racconto, sostenuta da una scrittura di sicuro mai sciatta, ma che nell’insieme non riesce a reggersi sempre in modo adeguato.
Più di ogni cosa sono tuttavia le riflessioni su scrittura e necessità di un proprio spazio a mancare di originalità e slancio: tematiche che come si diceva risuonano di innumerevoli altri testi e riflessioni d’autore alle quali il contributo di Levy non aggiunge poi molto né offre particolari soluzioni o un punto di vista nuovo. Non da meno è difficile provare empatia verso le difficoltà della narratrice: la donna che rivendica la – più che legittima – necessità di un proprio spazio dove poter lavorare libera da interferenze e urgenze del quotidiano è però anche una persona immersa nel proprio privilegio: certo, leggiamo del peso mentale e pratico di prendersi cura di tre figlie e della vita da rimettere insieme dopo il divorzio, ma come anche altri critici hanno notato siamo comunque dentro una realtà privilegiata, forse più umile rispetto al punto di partenza, ma il costo della vita su cui il titolo pone l’attenzione pare essere più metaforico che materiale.
La vita da scrittore è soprattutto una questione di resistenza. Per arrivare al traguardo è necessario che la scrittura diventi più interessante della vita di tutti i giorni […]. (p. 55)
E la vita di tutti i giorni della scrittrice è fatta di spaesamento e incertezza dopo il divorzio, ma anche del rifugio sicuro trovato nella cerchia di amici artisti anch’essi appartenenti si direbbe alla borghesia, a una rete di sostegno che le permette di chiudersi nel capanno dell’amica e scrivere indisturbata. Appaiono qui e là lampi e spunti di riflessione interessanti, a partire dalla scoperta della propria voce e di quell’io che la caratterizza: trovare il luogo per la scrittura coincide con il trovare l’io e la voce quindi che diventerà il tratto peculiare della sua produzione letteraria più riuscita. Un io da proteggere, rivendicare, in un mondo che non è particolarmente bendisposto nei confronti della soggettività femminile specie se non conforme, non sottomessa, non perfettamente calata nel ruolo di moglie e di madre. Ecco, sulle madri, ancora, uno spiraglio interessante, seppure non originalissimo:
A cosa ci serve una madre dall’aria sognante? Non vogliamo madri che guardano nel vuoto, che desiderano essere altrove. Abbiamo bisogno che la madre sia una donna di questo mondo, piena di vitalità, abile, pronta a soddisfare tutti i nostri bisogni. (p. 110)
L’egoismo dei figli, il sacrificio che chiediamo alle nostre madri. Ripenso molto spesso a un passaggio da Swing time – uno dei romanzi forse più sottovalutati di Zadie Smith – che su questo si era espressa perfettamente e che io stessa cito di frequente:
Cosa vogliamo dalle nostre madri quando siamo bambini? Completa sottomissione. Vuoi solo che tua madre ammetta una volta per tutte che lei è tua madre e solo tua madre, e che la sua battaglia con il resto della sua vita è conclusa. Deve deporre le armi e venire da te. E se non lo fa, allora è davvero guerra, proprio come è stato fra me e mia madre. (Swing time, Zadie Smith, Mondadori)
La battaglia di Levy non è certo conclusa e la sua idea di maternità e di femminile che traspare da ogni pagina dell’autobiografia in movimento è tra le più riuscite riflessioni che contiene. Alla fine però torniamo ancora una volta lì, al privilegio e a un’opera di non fiction dalla scrittura curata, gli spunti interessanti ma che non propone soluzioni, non apre nuove strade e sguardi sulle questioni dibattute. Un’opera che forse apprezzeremmo di più se non avessimo interiorizzato tutto ciò che di simile è venuto prima, a partire dalle autrici citate dalla stessa Levy, o se riuscissimo a mettere da parte quella sensazione di disagio di fronte al privilegio più volte qui citato.
Eppure credo ancora che ci siano anche lampi di particolare bagliore in questa trilogia: la scrittura salda – abilmente resa da Guerzoni – certe considerazioni appunto sul rapporto con le nostre madri, le insidie del patriarcato, la conciliazione dell’essere donna e artista, la scoperta della propria voce, della propria autorevolezza. Ecco, la voce: Levy rivendica il diritto di farla sentire la propria voce, libera da stereotipi, etichette, ruoli prestabiliti. A convincermi poco è la resa letteraria di questo testo, non di certo la libertà e la forza della voce da cui nasce e alla quale mi associo nel ribadire quanto sia urgente rivendicare quell’io che troppo a lungo ci è stato insegnato di mettere a tacere.
Allora non potevo saperlo ma avrei scritto tre libri in quel capanno, incluso questo che state leggendo ora. È lì che ho cominciato a scrivere in prima persona, usando un io che mi era vicino ma che non ero io. (p. 51)
Debora Lambruschini