I Greci mi hanno chiamato Afrodite. Molti secoli dopo sono emersa dalla terra vulcanica di Milo sulla scena della fantasia del mondo moderno. Sono anche emersa dall’acqua, come mi ha dipinto Sandro Botticelli alla fine del Quattrocento. […] Venire al mondo - dalla terra, dal mare, non importa - è un trauma anche per una dea. (pp. 28-29)
Dopo La trama di Elena (che abbiamo recensito qui), Francesca Sensini, docente di Italianistica presso l’Università Côte d’Azur, torna a occuparsi di un’altra figura femminile importante della mitologia classica, in letteratura raccontata sempre dagli uomini: Afrodite, la bella tra le belle. Signora della bellezza, causa delle gioie e dei tormenti amorosi, in origine, era anche una divinità bellicosa, perché agli albori della sua nascita, amore e guerra erano sotto la sua giurisdizione. D’altronde non c’è sempre una qualche forma di violenza o di aggressività quando si parla della passione amorosa?
Come per il precedente libro, la protagonista è voce narrante, racconta sé stessa, la sua nascita traumatica, i suoi amori e le sue debolezze e lo fa portandoci in viaggio con lei sulle principali rotte del Mediterraneo antico dove sono stati costruiti dai popoli antichi santuari in suo onore e statue che la riproducono.
Con una soluzione interessante e raffinata allo stesso tempo, Francesca Sensini ci regala, sin dalle prime pagine, immagini di questa prismatica divinità, unendo con l’incanto e la raffinatezza della sua voce il mito alle curiosità archeologiche ed etimologiche. In alcuni capitoletti però la voce narrante appartiene ad altri personaggi come Adone, celebre amante della dea, Melanione, che racconta di come con l’aiuto di Afrodite abbia conquistato la giovane Atalanta, la poetessa Saffo, che narra la sua storia d’amore con il pescatore Faone, «il ragazzo splendente» (p. 103). Il cambio di voce è funzionale a questo libro che, come per La trama di Elena, ha lo scopo di dare la parola a figure della cultura classica da sempre presentate come monolitiche e stereotipate, dando loro la possibilità di raccontare la propria storia rendendole vive e palpitanti.
Sin dalle prime pagine il lettore è trascinato in un'avventurosa traversata per mare, perché Afrodite è nata per essere viaggiatrice instancabile: lei scorre liscia sulla superficie marina solcandola su una conchiglia di madreperla, oppure scende dal cielo con un cocchio trainato da bellissimi cigni. Non vi è luogo del Mediterraneo che non possa raggiungere e che non la conosca e la veneri come alma progenitrice. È l’eterno femminino per eccellenza e scatena attorno a sé il desiderio, una forza irresistibile con cui gioca talvolta coinvolgendo animali, uomini e dei e favorendone la mescolanza.
L’oro è una passione. C’è l’ho scritta addosso, per questo mi chiamano Afrodite «dorata», Afrodite «dal molto oro». Come l’acqua è il migliore degli elementi, possibilità di vita, così l’oro è superiore a ogni altra ricchezza. È la luce che possiede, simile al sole nel cielo. Fa pensare a un giorno chiaro, di una felicità senza ombre, senza la controparte del male. È lo sfondo della realtà su cui mi staglio. Per questo sorgo dal mare, dal buio sotto le onde, e vi annuncio con un gesto della mano nei capelli, con un sorriso che non chiede nulla in cambio, che la beatitudine sulla Terra esiste. (p. 53)
Afrodite viaggia leggera, non ha armi né bagagli a mano, ma solo monili d’oro per la sua bellezza e il magico cinto capace di creare inganni e suscitare desiderio. Questo cinto non è propriamente una cintura, ma «una fascia che si incrocia in mezzo al petto, risale sul collo, dove si chiude, e scende seguendo mollemente la linea dei fianchi. È d’oro, ma, come succede al manto del polpo, prende ogni colore immaginabile» (p. 54). La dea Era una volta, racconta Sensini, lo chiese in prestito ad Afrodite, dicendole che le sarebbe servito per riaccendere il desiderio tra la primordiale coppia divina, Oceano e Tetide, ma in realtà desiderava accenderlo in suo marito Zeus, in modo da distoglierlo dalla guerra di Troia in cui il dio cercava di favorire i troiani, così da consentire ai Greci, che in quel momento senza Achille erano in svantaggio, di riprendere terreno e chiamare rinforzi. Afrodite sapeva già tutto e, nonostante fosse dalla parte dei troiani, la lasciò fare: il suo cuore di madre era al sicuro, poiché Zeus le aveva garantito che suo figlio Enea, avuto da Anchise, non sarebbe morto in guerra, ma avrebbe fondato una nuova civiltà nella penisola italica. Afrodite fa innamorare, seduce con il suo divino splendore, si fa donna per colpire gli uomini, ma anche lei ne subisce il fascino e, inesorabilmente, si innamora. Adone, Anchise, il dio della guerra Ares sono stati i suoi più famosi amanti, ma il suo è un amore che vivifica e non distrugge, è un amore che dona la vita e la giovinezza. Come ci riesce? Lo racconta Saffo: con un cespo di lattuga. «Afrodite lo usava per tenere giovani i suoi amori, facendoli morire e rinascere continuamente» (p. 109)
Sensini ha una penna ammaliante, crea immagini preziose, dinamiche, vivide e, soprattutto, rigorose: ogni capitoletto ha una sua bibliografia e le sue chiose esplicative a fine libro. È un’opera che scorre veloce e arricchisce il lettore regalandogli piacere nella lettura, senza dover scendere a quei (per me) fastidiosi compromessi di alcuni retelling di maniera, in cui il mito deve strizzare l’occhio a certe forzature che si allontanano dal rigore della storia originaria, alterandone a volte snodi essenziali. Ho trovato assolutamente imperdibili i capitoli iniziali del libro, perché contengono, unite alla struttura del mito, le storie di due famosissime riproduzioni della nostra dea: la Venere di Milo nelle Cicladi approdata poi a Parigi grazie all’entusiasmo e alla passione per l’antichità del sottotenente della marina francese Olivier Voutier e la statua di Afrodite Cnidia, che conosciamo solo grazie a copie romane. Queste due riproduzioni offrono alla scrittrice l'occasione di aprire una riflessione sulla natura originaria della stessa Afrodite, o Venere, ma anche altri nomi sarebbero ugualmente validi poiché
Tremila anni prima dell’era cristiana, in Mesopotamia, i Sumeri mi chiamavano Inanna, gli Accadi e gli Assiro-babilonesi Ishtar. I miei nomi cambiano nel tempo, lungo la rotta dei miei viaggi, ma non le mie funzioni: anche in quelle terre montagnose tra il Tigri e l’Eufrate, incarnavo l’amore dei corpi come forza di vita, la bellezza che soggioga con il suo splendore e la guerra che domina con la sua ineluttabilità. (pp. 27-28)
Afrodite, in origine, era anche dea della guerra! Si è fatto di tutto per immaginare tra le mani dell’ellenistica Venere di Milo - i cui tre blocchi in cui si era spaccata erano stati riassemblati per essere esposti al Louvre - una mela, il famoso pomo della discordia che Paride aveva donato alla dea più bella. Tale ricostruzione trova riscontro anche nel nome: Venere di Milo, Venere della mela. «Tout se tien» (p. 15) scrive Sensini, per poi, qualche pagina dopo, rivelare che la verità riguardo alla statua si è inabissata di nuovo come i suoi frammenti, perché lì dove è stata immaginata una mela, era stato ritrovato…uno scudo! Uno scudo ovale che rispecchia bene il suo carattere combattivo che nei poemi omerici e nella tradizione successiva non era stato considerato adatto a una donna di cui bisognava decantare solo la bellezza, la fragilità e la dolcezza.
Ma io sono qui per ricordare. (p. 24)
Ecco lo scopo dell’opera: riportare alle origini la figura della dea dell’amore evidenziandone anche la forza, la combattività, l’audacia, nonostante lei viaggi senza armi pesanti, perché anche sull’amore e la bellezza gravano responsabilità.
Marianna Inserra
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