La dipendenza dalla droga e l'assoluto bisogno di amore: la storia di Nora e Javo nella Melbourne degli anni '70


 

Come piombo nelle vene
di Helen Garner
Nottetempo, febbraio 2024

Traduzione di Milena Sanfilippo

pp. 336
€ 18 (cartaceo)
€ 12, 49 (e-book)


Con quanta incoscienza riesci a convincerti che quello che stai facendo in un preciso momento non sia abbandonarti davvero alla droga, al cibo o al fumo, o a qualsiasi altra cosa che lucidamente avevi deciso di evitare; che quella non è altro che un'evasione innocua, il semplice desiderio di non sprecare qualcosa - o forse nulla di tutto ciò, perché la tua mente ha già mollato gli ormeggi, e si è disconnessa dal tuo corpo. Non sappia la mano destra cosa fa la sinistra. Perciò! Per un po' mi accorsi con stupore che mi sentivo una favola, sensazione che durò fino alle dieci di sera, quando mi infilai a letto e mi addormentai. Sognai che mi aprivo un taglio che mi ero procurata realmente da sveglia sul dito più lungo della mano destra, e ne estraevo una lisca bianchissima, lunga due centimetri. Guai in vista. Javo il mostro. (p. 108)

Pubblicato per la prima volta nel 1977, questo romanzo di debutto dell'autrice Helen Garner vince l'anno dopo il prestigioso National Book Council Award, lanciando una carriera che la fa considerare come la maggior scrittrice australiana vivente.
Dopo questa premessa promettente, ecco il romanzo: Come piombo nelle vene è ambientato a Melbourne, nei suoi sobborghi; protagonisti sono Nora, alter ego dell'autrice, una madre single sulla trentina, Javo, junky impenitente ridotto a scheletro dall'eroina, e altri personaggi collaterali come Francis, Grace, Martin, Bill, tutte persone, ognuno a modo suo, distrutte o dalla droga o dallo spaesamento o dalla povertà.

Si tratta di un romanzo lento, che ci parla di due temi cardine: la dipendenza e la solitudine. La dipendenza la fa da padrone: non solo Javo, lo spettro con gli occhi azzurrissimi, ferocemente amato da Nora, che si consuma e si ammazza di eroina, ma anche la stessa Nora, fatta ogni tanto di speed, di cocaina, ubriaca spesso e volentieri; così anche Martin, Jessie e tutti gli altri. Sullo sfondo una città come di sogno, onirica, schiacciata da estati roventi, da tramonti bellissimi, e da inverni deprimenti, pronta a ripartire solo con le belle giornate di sole.

La vita di Nora, che finisce con tutte le scarpe in una perfetta relazione tossica - in tutti i sensi - è un susseguirsi di giorni apatici, senza significato, e notti di attesa: aspetta che Javo torni, continuamente, anche quando sparisce per mesi, chiuso in centri di rehab o in galera in Asia, lei aspetta, aspetta sempre. E mentre lo fa si consuma. 

«Una donna con un atteggiamento confuso verso la sua ossessione» (p. 101): così la definisce Garner. E davvero Javo rappresenta per lei un amante, un amico, ma forse ancora di più un figlio, un bambino malato di cui lei deve prendersi cura. 
E però chiunque abbia mai avuto a che fare con qualche dipendenza sa che non ci si può fidare: gli sbalzi d'umore, la violenza, le bugie, le giornate vuote, le improvvise mancanze, le nottate in ospedale. Nora sopporta tutto, per amore. Perché è irrimediabilmente (almeno lei così crede) innamorata di lui. Però ammette di avere una sua personale addiction: il sesso. Seppure resta più o meno fedele a Javo, non disdegna di andare a letto con altri uomini. Ammette che non è il sesso in sé a renderla 
bisognosa, ma la mancanza d'amore. Nora vorrebbe solo essere amata.

Era parecchio ormai che non scopavo. Non che mi mancasse l'atto in sé: io volevo amore. Mi sentivo triste e affamata, anzi bramosa, desiderosa di consolazione. Piluccavo spuntini per tutta la mattina, fino a sentirmi disgustata di me stessa, poi tornavo di sopra in camera a scartavetrare le pareti, ora dopo ora. Venne a trovarmi Lou. Lavorò insieme a me per un intero po-meriggio. Ma non faceva che mollare il raschietto e buttarmisi addosso per abbracciarmi quasi famelico, per sbaciucchiarmi e ricoprimi di attenzioni, dicendo: "Oooh, questo sì che è un lavoro sexy!"

Almeno mi impedì di sentirmi triste fin dentro la carne.

"Sono settimane che non scopo," commentai. "Non altro che di scopare con quelli che conosco". (p. 82)

Desiderosa di consolazione: ecco cosa vuole Nora. Qualcuno come Javo, ma senza eroina. E però questo forse non è possibile. C'è però molta poesia nella narrazione: nelle notti insonni, nei colori slavati della città, nelle case sempre piene di gente pronta ad ascoltare e a dare una mano, nelle carezze ai figli, nelle poesie di Javo e nei suoi occhi azzurri che diventano bianchi, come punti da spilli, quando è in trip. Lo stile stesso dell'autrice è scivoloso, anche nelle scene di sesso o quando descrive il degrado di qualcuno che si sta facendo - che sia di eroina, cocaina, speed, acidi o altro - non cade mai nel grottesco, nel lercio, nel pietoso. Cosa che ho apprezzato molto.
C'è una delicatezza molto avvolgente, soprattutto nei sentimenti. 

"Assurdo," disse. "Tu sei l'unica che gli sta ancora dietro".
Non l'avevo mai vista in quel modo. [...]
Javo era troppo disarmato per essere odiato con tutto il cuore. E oltretutto, lo amavo. (p. 167)

L'unico difetto che riesco a trovare a questo romanzo è l'essere un po' prolisso e ripetitivo: qualche pagina in meno non avrebbe tolto nulla alla storia.

Lo consiglio a chi ama i romanzi che affrontano il tema della dipendenza - sia dalla droga che affettiva - in modo crudo ma non spinto, come fa ad esempio Palahniuk. Qui, come dicevo, c'è un tocco attento e delicato, anche su questi argomenti complicati.

Deborah D'Addetta