«Sono partita, ma sono restata». Quando la migrazione diventa uno stile di vita: il destino di quattro generazioni di donne in “Una terra per restare” di Jadd Hilal


 

Una terra per restare
di Jadd Hilal
Astarte edizioni, 26 aprile 2024

Traduzione di Giulia Beatrice Filpi

pp. 190
€ 16,00  (cartaceo)


Noi palestinesi non eravamo ben visti in Siria. Non eravamo ben visti da nessuna parte, d’altronde. E su questo mia cugina Basilah era d’accordo con me. «Ascolta, Naima, vivo in Siria, ma sono nata in Palestina, ci sono cresciuta. Credi che non avrei preferito vivere lì la mia vita? Crescere i miei figli? Cucinare la cena a mio marito? Passeggiare per le strade? Ho fatto di tutto per restarci, in Palestina. Ma sai, Naima, i politici questo non lo capiscono. Non capiscono che, se emigriamo, è perché abbiamo già provato tutto, che è l’ultima spiaggia. (p. 68)

Una terra per restare è l’esordio dello scrittore libano-palestinese Jadd Hilal, pubblicato in Tunisia dalla casa editrice Elyzad nel 2018 e racconta la storia vera, in parte romanzata, di quattro generazioni di donne della famiglia dello scrittore, costrette a emigrare in continuazione dal Medioriente all’Europa a causa delle guerre e del clima di incertezza. È un libro dove le protagoniste sono sempre in bilico tra la necessità di mettere radici e il bisogno di fuggire.

La scrittura manifesta sin dalle prime righe la sua tempra: un ritmo spezzato, rapido, spesso tranciante ci accoglie e si mantiene quasi per tutta l’opera. Non è superfluo riconoscere il merito della traduttrice, Giulia Beatrice Filpi, che nell’impeccabile edizione Astarte ha curato non solo un Glossario dei termini arabi utilizzati nel testo, ma anche una Nota in cui spiega le origini dell’opera, la scelta del titolo in italiano e cosa ha rappresentato per lei occuparsi di un libro così intenso:

Tradurlo è stato vivere, sul piano della lingua, la stessa tensione tra l’allontanarsi e il rimanere. Come le persone, anche  le parole devono talvolta partire da dove sono per restare vive. […] La tensione, eterno dissidio dei popoli oppressi, è quella tra l’atto di prendere il volo e quello di rimanere attaccato alla propria terra, partire e restare. (p. 187)

Una terra per restare si apre ad Haifa, «il fiordo del Mediterraneo» (p. 11) un tempo capitale della Palestina, oggi facente parte dello stato di Israele, dove Naima, nonna dello scrittore, passava le giornate ad ammirare le barche che solcavano il mare, felice dell’amicizia con la famiglia ebrea di Ahava, sua coetanea («Ed eravamo inseparabili. Mangiavamo, cantavamo, ballavamo insieme», p. 11). Un giorno Naima, mentre si trova al grande mercato, viene sorpresa dai bombardamenti a opera del gruppo ebraico dell’Haganah. È il 1937 - periodo del mandato britannico, quello che precede la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 - e la piccola riesce a salvarsi, riportando solo una ferita alla testa. A soli dodici anni Naima sposa il ventunenne Jahid che l’aveva chiesta in sposa ai genitori di lei colpito dal candore della sua pelle e dal verde degli occhi. La sua vita matrimoniale è segnata da subito dagli spostamenti: nel 1947 scoppia la guerra civile in Palestina e alcuni ebrei sionisti invadono la città. Jahid decide di scappare con lei a Baalbek in Libano, mentre i suoi familiari rimangono ad Haifa.
Ero sola. E non ero niente. Nessun luogo, nessuna identità, nessuna scelta. A diciassette anni ero nomade. Non avevo vissuto da nessuna parte - nel migliore dei casi, avevo seguito - e, soprattutto, ero troppo giovane per sapere se la vita che facevo mi piacesse o meno. (p. 29)

Dal matrimonio infelice e arido con Jahid, il quale darà più avanti segni di mania suicidaria, Naima avrà ben sette figli, tra cui Ema, la primogenita che il lettore imparerà a conoscere leggendone i pensieri. L’opera di Jadd Hilal è infatti un romanzo polifonico dove si alternano in prima persona le voci delle donne più forti e importanti della storia familiare dello scrittore, Naima, Ema, Dara, Lila, che ci daranno la possibilità di conoscere uno stesso evento da più punti di vista. 

Proprio come in una canzone di quattro note che si alternano creando una melodia limpida ed equilibrata, il romanzo Una terra per restare, coinvolge il lettore non solo per l’interesse verso la storia, ma anche per le variazioni all’interno della narrazione. Vi sono passaggi ora toccanti, ora ironici, irriverenti ma mai retorici, e ciò rende più vivido il romanzo e tiene desta l’attenzione del lettore. All’inizio del racconto, giova dirlo, chi legge troverà l’albero genealogico della famiglia che gli consentirà di individuare le parentele tra i diversi personaggi.

Fanno da contraltare alle donne delle figure maschili deboli, inquiete e violente: Jahid è un marito infedele, in lotta col mondo, e alla fine deciderà di togliersi la vita; Zahi marito di Ema, di facciata professa l’uguaglianza dei sessi e poi tiranneggia in casa. Dara, figlia di questi ultimi, intollerante ai troppi spostamenti decisi dal padre dirà:

Ema e mio padre mi fecero lasciare Beirut per Arsoun, durante la prima guerra civile che era cominciata nel 1975, in Libano. Mi fecero lasciare il Libano per Baghdad durante la Grande guerra nel 1982. Quando, da Baghdad, tornammo in Libano e la guerra ci minacciò di nuovo, ovviamente pensai che saremmo fuggiti un’altra volta. (p. 98)

Avete letto bene: Dara non riesce a chiamare «mamma» sua madre, ma la chiama col nome proprio. Si tratta di un trauma, di un conflitto non risolto che la bambina porterà con sé e verrà spiegato nella storia. Nonostante però questa distanza che avverte verso la madre, Dara le somiglia tantissimo, per caparbietà, voglia di indipendenza e, soprattutto, desiderio di mettere radici, restare in Libano, che nel frattempo è diventata la vera patria delle nuove generazioni in luogo della Palestina che lo era stata invece per Naima e i suoi avi. Come Ema da giovane, anche Dara si rifiuterà a un certo punto della storia di seguire i genitori e restare con i nonni in Medioriente:

Ancora oggi, nulla mi manca più del caos libanese, quel disordine variegato e barocco, quella terra dove tanti uomini, credendo di morire l’indomani, comprano auto di lusso per poi essere costretti a viverci dentro a causa dei debiti; quel caos comunitario dove conosci tutti senza conoscere davvero nessuno; quella terra dove la futilità e la rassegnazione in politica non conducono alla mollezza europea, ma a una specie di menefreghismo o, meglio ancora, alla beffa. (p. 140)

Naima, Ema, Dara e poi Lila, di cui lascio al lettore il piacere di scoprire la storia, sono donne che hanno dovuto abbandonare molto presto la propria casa di origine, ma che sono riuscite a vivere decorosamente in Francia e in Svizzera, grazie al fatto di essere dipendenti dell’ONU. Quattro donne, quattro storie diverse, ma che hanno una caratteristica comune: partire per poi tornare. Non a caso il titolo originale in francese Des ailes au loin, che in italiano sarebbe “delle ali in lontananza”, traduce il bisogno fisico di libertà, di potersi spostare senza costrizione sapendo di poter tornare al più presto. Sono donne che migrano e che tornano a casa con le loro stesse ali.

I tre uccelli andavano più veloce di me. A un certo punto avevo smesso di vederli. C’erano solo delle “V” molto lontane nel cielo. Allora avevo chiuso gli occhi e avevo sognato di andare con loro, nel cielo. E quando, nel sogno, riaprivo gli occhi per capire come facevo, scoprivo che ero come gli uccelli.
Che anche io volavo.
Che anche io avevo qualcosa che gli altri non avevano.
Che quella cosa erano le ali. (p. 184)

Marianna Inserra