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«Il nostro buon diritto di colonizzatori»: la violenza dell'imperialismo europeo nell'Algeria del secondo Ottocento in "Attaccare la terra e il sole" di Mathieu Belezi

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Attaccare la terra e il sole
di Mathieu Belezi
Feltrinelli Gramma, 2024

Traduzione di Maria Baiocchi

pp. 140
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Attaccare la terra e il sole di Mathieu Belezi è un romanzo a due voci: quella di Séraphine, moglie di un bracciante che ha scelto di trasferirsi in Algeria con tutta la famiglia per fare fortuna lavorando un appezzamento di terra di concessione statale, e quella di un soldato che fa parte del contingente di conquista. I titoli dei primi capitoli descrivono la differenza della loro posizione, e l’anima stessa dell’impresa coloniale: “Ardua fatica” e “Bagno di sangue”. E, nel realizzare con lo scorrere delle pagine che non ci sono altri titoli oltre a questi, che si alternano e si ripetono inesorabili insieme alle voci, si percepisce forte la denuncia dell’autore, che non è circostanziata esclusivamente alla missione espansionistica francese del diciannovesimo secolo, ma allunga le sue ombre lunghe sul contemporaneo, sia per quanto riguarda le conseguenze della politica imperialista europea, sia per le nuove, più subdole, forme di dominazione in atto. Entrambi i percorsi sono frutto di promesse tradite, entrambi si scontrano con la durezza di una vita al limite (del deserto, ma anche della civiltà, o di quella allora riconosciuta come tale). L’inverno di pioggia, gelo e fango, le estati torride che bruciano il respiro, il colera, gli animali feroci non meno dei barbari che si annidano nell’ombra fuori dall’accampamento, tutto della terra straniera pare incompatibile con la sopravvivenza. Le leggi del mondo occidentale non possono sopravvivere in questo contesto estremo, lo stesso concetto di giustizia inizia a vacillare e tutto ciò che resta è la fede in un Dio che appare però lontano e indifferente, sordo a ogni appello.

L’inferno era scomparso, ma noi eravamo lontani dal dimenticare che era lì, sotto i nostri piedi nudi che andavano e venivano totalmente ignari, e che in un qualunque momento poteva spalancare di nuovo i suoi abissi e decidere delle nostre vite, a suo piacimento, senza commuovere in alcun modo il nostro Dio – mentre noi da secoli non abbiamo fatto altro che lodarlo
come credere, dopo tutto questo? (p. 60)

Colpiscono come uno schiaffo le parole brutali, a volte grottesche, del milite, i suoi deliri di (pre)potenza infiammati ad arte dal suo capitano, idolatrato come una divinità («se la terra e il cielo sono del nostro capitano, e lo sono, per il potere della sua sciabola dominatrice affermo che lo sono, questa terra e questo cielo sono anche nostri», p. 100), così come gli echi della propaganda nazionalista occidentalesiamo noi soldati che ci occupiamo dei miracoli, noi soldati che sbarazziamo questa terra d’Algeria dai suoi fanatici, che creiamo città e strade, che prosciughiamo le vostre paludi della malora», p. 37). In mezzo ad essi si insinua però a tratti una voce più sottile, forse una coscienza, continuamente messa a tacere, che rivela per contrasto la verità, la natura dei soprusi, l’abominio che viene perpetrato.

Non a caso per definire i soldati sono utilizzate per lo più immagini bestiali, quasi mai in forma lusinghiera: quello cui si assiste è il predominio dell’istinto sulla ragione e su qualsiasi forma di umanità, il prevalere di uno spietato darwinismo sociale, in cui a trionfare è il più forte, colui che dispone di più mezzi o più violenza. Anche il linguaggio del sacro viene risemantizzato: i soldati «non sono angeli», viene continuamente ripetuto, calano anzi «come diavoli» sui villaggi, e quella dell’inferno è, del resto, l’esperienza che fanno i coloni nella regione inospitale, respingente, che stronca illusioni e strappa vite senza pietà, dall’una e dall’altra parte. La resistenza tenace dei contadini che provano a strappare frutti al deserto algerino, di costruire una città dove prima c’erano solo tende, di reintrodurre i principali elementi comunitari (la locanda, la chiesa, la scuola), comporta un prezzo altissimo, accompagnato da un lato dall’incertezza del successo, dall’altro dalla consapevolezza di non poter fallire.

– Dovremo farcela per forza

e mi ha guardato come se fosse sicuro che quello che ci aspettava fosse al di sopra delle nostre forze, e io mi sono sentita persa, fuscello di paglia sotto il cielo immenso, consegnata senza pietà al sole, al colera e alla malaria, alle belve fameliche come agli indigeni che non ci sopportavano e che davano la caccia al roumi, il nemico che tutti noi eravamo diventati, con la stessa ferocia con cui il leone caccia la sua preda. (p. 83)

Il romanzo di Belezi mostra con una brutalità dolorosa le due facce della colonizzazione, entrambe caratterizzate da violenza e ingiustizia (siano esse subìte o inflitte). Alla base, a segnare e consumare i destini di uomini e donne, c’è la volontà di una nazione lontana, che riempie i giornali di proclami e invia autorità in rappresentanza, ma nulla fa di concreto per affrontare i problemi connessi a una compagna di conquista (da loro definita «di pacificazione»), in cui a pagare il fio sono i civili di entrambe le parti. Tutto è concesso «in nome del diritto, del nostro buon diritto di colonizzatori» (p. 101), ogni azione giustificata dal dovere di esportare «i tesori di una cultura millenaria», e tutti coloro che «rifiutano la nostra mano tesa saranno rintuzzati, schiacciati, fatti a pezzetti» (p. 109). Il concetto di vittoria viene svuotato di significato, perché nessuna acquisizione può considerarsi duratura, nessun guadagno vale lo sforzo effuso per acquisirlo. E se la barbarie viene associata senza possibilità di fare distinzioni tanto ai locali quanto agli invasori, perché simili sono gli atti, certo è possibile e doveroso tracciare un discrimine circa le motivazioni. Attaccare la terra e il sole è un racconto breve, ma di straordinaria durezza, che deve far riflettere tanto sulla storia passata quanto sul presente, in cui le conseguenze della stagione dell’Imperialismo europeo sono ancora ben visibili.

Carolina Pernigo