Quando incontriamo Gabriele, nelle primissime pagine del libro, scopriamo subito che è molto solo: vive in un appartamento pieno di piante, sbarca il lunario con un lavoro di cui dovrebbe essere fiero, perché almeno può sostentarsi, ma è lontano dai suoi studi di architettura e sfida ogni giorno la sorte a bordo di una Panda piuttosto decrepita. Attorno a sé non ha una famiglia che lo aspetta, né un amore. Ha però i ricordi, e i più felici riguardano suo padre, morto prematuramente: le domeniche in bicicletta, i ghiaccioli condivisi, i piccoli ma intramontabili rituali che rendevano speciale la loro vita insieme. Un pensiero ricorre, impietoso perché purtroppo è una domanda immutabile: «Cosa sarebbero stati Gabriele e suo padre se lui non fosse morto?» (p. 23).
Più complessi e controversi sono invece i ricordi che riguardano la madre, perché sono stati intaccati da ciò che è successo dopo. Non avvertiamo immediatamente i motivi per cui ora Gabriele non frequenta né telefona più alla donna, ma capiamo che deve essere successo qualcosa di molto grave, che ha scavato un vuoto nel petto magrissimo del protagonista. In realtà, Gabriele ha smesso di frequentare anche sua zia, a cui lo legava una straordinaria passione per le piante: lei gli è stata maestra nel mostrargli la magia della natura dietro l'arte delle talee.
Poi, però, Gabriele, ha dovuto imparare a farle da sé. In fondo, ha imitato anche lui quelle prime piante di pothos: gli è stato necessario generare nuove radici che lo ancorassero alla sua nuova realtà, lontano dalla pianta-madre, a rischio di non farcela. Ma è sopravvissuto.
A questa dimensione di passato, che affiora in flashback avviluppanti, che si arrampicano e crescono sul piano del presente senza soffocarlo ma che sono molto più intensi, si avvicendano giornate piuttosto ripetitive. Almeno finché nella vita di Gabriele non torna all'improvviso sua zia, con una notizia che lo porta, ancora una volta, a provare a riaprire i rapporti con quella madre che fatica ad aprirgli nuovamente la porta di casa (ma che non ha tolto il suo nome dal citofono).
Così, dopo «un'infanzia passata nel silenzio, un'adolescenza trascorsa nelle domande. Quanto credo? Cos'è la fede? Dov'è mio padre?» (p. 60), per Gabriele è tempo di pensare a diventare adulto. Ma questo non è un processo semplice, ce lo confessa il narratore, in una delle tante sequenze riflessive che danno voce ai pensieri del protagonista. Come per Gabriele è stato un percorso accidentato accettare di avere un corpo e imparare a goderne, così lo è stato fare coming out con la sua migliore amica, ma ancora i suoi sono incontri occasionali con uomini con cui si scambia minuti di piacere, niente di più.
Fare i conti con l'irrisolto significa anche liberarsi in vista di altre svolte, più liete, in direzione di una maturità che alla fine del romanzo riusciamo a intravvedere e soprattutto a sperare, per un protagonista che entra nelle nostre vite delicatamente, con la paura che ha di fare danno. Ma poi resta.
Solo i santi non pensano è un esordio narrativo interessante e sicuramente insolito nel panorama italiano per l'altissimo grado di riflessività presente tra le pagine. Forte è lo scarto tra i dialoghi - brevissimi, spesso quasi tachigrafici - e un periodare ben più ampio nella parte descrittiva e riflessiva. L'azione c'è, ma non è questo che preoccupa particolarmente l'autore; viceversa, in questo romanzo l'imperativo è sentire ciò che ha avvertito o tutt'ora percepisce Gabriele.
GMGhioni