di Gérard de Nerval
La Nave di Teseo, 2024
€ 9,99 (ebook)
«Je sortais d'un théâtre où tous les soirs je paraissasi aux avant-scènes en grande tenue de suoupirant». Abbiamo la possibilità di gustarci anche il racconto in lingua originale nella nuova edizione di Sylvie edita a maggio da La Nave di Teseo. Ma, per coloro che non conoscono il francese, la traduzione porta la firma illustre di Umberto Eco, che, da sempre, ha dedicato attenzione e amore, in seminari, conferenze e pubblicazioni, al testo di Nerval. Proprio un lungo e prezioso saggio di Eco conclude questo volume, fornendo al lettore non solo il viaggio misterioso e affascinante nella prosa brumosa di Nerval, ma anche la lucidità e la passione di un lettore d'eccezione.
Pubblicato per la prima volta nel 1853 sulla Revue de deux monde e l'anno dopo nel volume Les Filles de Feu, Sylvie è un lungo racconto che incanta e che ha ipnotizzato perfino un ammaliatore quale Marcel Proust.
Sylvie ci parla di qualcosa - di un colore irreale - che vediamo talora dormendo e di cui vorremmo fissare i contorni, che fatalmente perdiamo quando ci si ridesta. Sylvie è il sogno di un sogno, e la sua qualità onirica è tale che "siamo costretti a ogni momento a tornare indietro, alle pagine precedenti, per vedere dove ci si trovi". (p. 115)
Dove ci troviamo? L'azione inizia in un tempo imprecisato, quando l'io narrante esce da un teatro, in cui è solito andare per vedere un'attrice di cui è innamorato. La figura di quest'attrice rievoca in lui il primo amore per una fanciulla di nome Sylvie e la fascinazione, vissuta ai tempi da Sylvie come un suo tradimento, per una ragazza nobile di nome Adrienne, talmente somigliante all'attrice che lui nel dormiveglia dubita che siano la stessa persona.
Al cammino a ritroso nella memoria, narrato in una serie di flashback incastonati l'uno nell'altro, corrisponde anche un vero movimento del protagonista verso i luoghi del passato, con il ritorno a Loisy e il nuovo incontro con Sylvie. La particolarità del testo di Nerval è che il vero gioco di specchi non lo forma l'intreccio, ma il nostro tentativo di ricostruire la fabula: aprendo Sylvie entriamo in un bosco narrativo in cui è facile perdersi. La poesia e la vertigine dell'indefinito vengono sapientemente costruite dai tempi verbali, oltre che da un io narrante che, proprio perché assume i punti di vista di vari momenti della propria vita, dà l'impressione di moltiplicarsi.
Tutto mi era chiarito da quel ricordo quasi sognato. Quell'amore vago e senza speranza, che provavo per una donna da palcoscenico, e che tutte le sere mi prendeva all'ora dello spettacolo, per non lasciarmi che al momento del sonno, germinava dal ricordo d'Adrienne, fiore della notte sbocciato alla pallida luce della luna, fantasma rosa e biondo lambente l'erba verde appena bagnata di bianchi vaporo. - Quell'immagine da tempo scordata si profilava ora con sorprendente nettezza: era un pastello sbiadito dal tempo che diventava pittura, come quei vecchi schizzi di maestri ammirati in un museo, di cui poi ritroviamo l'originale smagliante. (p. 27)
Gli amanti di Proust non possono che immergersi con entusiasmo in queste pagine che sono davvero espressione - come Proust ebbe a dire nel saggio Contro Sainte-Beuve - delle "misteriose leggi del pensiero". Queste misteriose leggi, che sembrano affacciare la coscienza dell'Io narrante nello scivoloso sentiero dell'inconscio, creano un atmosfera impalpabile. Impalpabile come le azioni di questa storia. Di preciso cosa accade? Quali sono i fatti? L'impressione che si ha, quando si chiude l'ultima pagina di Sylvie, è che tutto si sia svolto nella testa del protagonista, sotto forma essenzialmente di mancanza e nostalgia. È la nostalgia dell'Uno, o meglio dell'Amore che unifica due anime e due corpi facendoli diventare unità. L'io narrante (quello che Eco con un gioco di parole chiama Je-rard) insegue l'amore ideale, che in varie fasi della propria vita ha creduto che potesse essere incarnato dalle tre figure femminili di cui narra e vagheggia.
Ci sono uomini che recitano così bene la commedia dell'amor! Io non mi ci sono mai abituato, anche se so che molte accettano consapevolmente d'essere illuse. D'altro canto, un amore che risale all'infanzia ha qualcosa di sacro... (p. 83)
Le immagini quasi teatrali (la recita, il ballo in maschera) contribuiscono ad amplificare il senso di irrealtà che rende leggiadra la storia, benché malinconica. La malinconia, che però non diviene mai struggimento grazie all'eleganza formale del testo, nasce dall'impossibilità per il narratore di approdare alla realtà, di dare corpo all'ideale dell'amore.
Tali sono le chimere che ammaliano e sconvolgono all'alba della vita. Ho cercato di fissarle senza badare all'ordine, ma molti cuori mi comprenderanno. Le illusioni cadono l'una dopo l'altra, come scorze d'un frutto, e il frutto è l'esperienza. Il suo sapore è amaro; e tuttavia essa ha qualcosa di aspro che tonifica. (p. 99)
Alla fine Sylvie è un'elegia del rimpianto, il narratore la vedrà sposata a un altro e con due figli e si dirà: «Ecco dov'era la felicità; eppure...». O forse, come suggerisce Eco, Sylvie è il tempo perduto e mai più ritrovato e l'interesse amorevole di Proust per questo scritto è portare avanti l'impresa che a Nerval era fallita. Oppure, sempre seguendo la pista ermeneutica di Eco, è proprio in questo riassorbimento del presente nella memoria che bisogna ricercare la vera cifra della filiazione di Proust dal testo di Gerard de Nerval. Di certo, nonostante la brevità del racconto - soprattutto se paragonata alla monumentale cattedrale proustiana - i lettori non riescono a uscirne: sembra quasi di restare dentro il testo, di non trovare il sentiero per uscire dal bosco, avvolti dai suoi fantasmi.
Deborah Donato
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