Arrivato tra i finalisti del Premio Strega Europeo 2024, La mia Ingeborg del norvegese Tore Renberg è un romanzo duro, che porta i lettori al cuore della violenza e lo fa mediante uno stile che aderisce perfettamente alla storia narrata. Pubblicato in Italia da Fazi per la traduzione di Margherita Podestà Heir, non è un testo facile cui approcciarsi, come del resto ardua deve essere stata la sua scrittura. Nei giorni del Salone del libro di Torino Debora Lambruschini ha intervistato in esclusiva l'autore, per capire qualcosa di più su questa storia di violenza e segreti.
La mia Ingeborg è il suo primo libro che viene tradotto in italiano. Il titolo originale, “Ingeborg of Tollak” pone una leggera differenza, che si rivela leggendo il romanzo.
È vero. “La mia Ingeborg” marca una differenza rispetto a “Ingeborg di Tollak”. Ho scelto “Ingeborg of Tollak” come titolo per l’edizione norvegese per sottolineare il legame con la comunità in cui è ambientata la storia e il modo appunto con cui le persone si riferiscono a lui e alla moglie. Ciò significa anche che la propria vita per Tollak non conta nulla senza Ingeborg, perché è così che si definisce, è in rapporto a lei che tutto sembra avere senso. Quindi non è per lui offensivo.
È una storia dura, difficile da leggere. Ma quanto è stato difficile da scrivere?
Bella domanda, ti ringrazio per averla posta. Tollak, il protagonista del mio romanzo, è un uomo contraddittorio. Disprezzo quello che ha fatto, ma allo stesso tempo lui per certi versi mi piace anche. E quando scrivi una storia del genere, per me, si tratta di diventare in qualche modo l'avvocato difensore di questo personaggio. Nel caso di Tollak è stato davvero difficile ma non ho potuto fare a meno di affezionarmi lo stesso a lui, nonostante i problemi che ha e le azioni terribili che compie. È lui stesso a dire di aver fatto qualcosa di terribile, di aver ferito il suo grande amore. Eppure mi sono lo stesso affezionato a lui, a Odo, alle persone di questa storia. E mi sono tuffato in questo materiale oscuro, oscuro davvero. Quindi sì, questo mi ha molto colpito. Perché non ero più all’esterno ma all’interno della storia, all’interno di quella oscurità. E quando tornavo a casa, silenzioso e accigliato, mia moglie a volte mi guardava e diceva “Ah, Tore, sei stato troppo a lungo con Tollak oggi!”
È davvero un romanzo interessante, ma una storia molto difficile. Ci sono aspetti molto duri, ma altri invece che sono piuttosto teneri. È difficile perché i sentimenti che proviamo per il protagonista, sono davvero intensi. Un’intensità che si costruisce anche per mezzo della scelta di raccontare la storia in prima persona, dal punto di vista proprio di Tollak.
Conosciamo bene la storia dell’umanità, degli uomini e della violenza che c’è nella nostra società. Per me, come uomo, è molto difficile da sopportare. Perché accade questo, perché gli uomini risolvono i problemi con i pugni, con la violenza? Questo è il grande problema dell'umanità. Ma dobbiamo cercare di capire. Se ci limitiamo a condannare, non ci sarà mai alcuna soluzione. Quindi questa è letteratura. Questo è il dono della letteratura: penso a te, a me, ai lettori, alla comunità dei lettori e alla civiltà, ovviamente, a come la narrazione possa aiutarci a capire. La letteratura può farlo. Non la politica, non l’aula del tribunale. La letteratura può farlo se hai il coraggio di entrare nel difficile. Quindi ecco perché ho scelto di raccontare proprio questa storia in questo esatto modo: volevo ascoltare questa persona, volevo ascoltare questa persona disperata, sola ma anche amorevole che ha fatto il peggio. E come potevo raccontare questo abisso, questa oscurità, le contraddizioni di Tollak? Lui sa quello che ha fatto e la storia è come se fosse una confessione. Questo romanzo è come se fosse un confessionale.
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Non solo la prima persona ma anche lo stile aderisce perfettamente al tipo di storia che volevi raccontare…
Quello che cerco sempre di fare è trovare non il mio ritmo, non la mia voce: ovviamente sono io a scriverlo, ma devo trovare la voce del personaggio, soprattutto quando uso la prima persona come in questo caso. Mi chiedo: come parla il personaggio? E, naturalmente, che visione ha del mondo, dove è nato, dove ha vissuto, a quale generazione appartiene. Ma anche come è fatto il paesaggio entro cui si sviluppa la storia. La narrazione adatta doveva avere molte pause, doveva essere secca, asciutta.
Anche dal punto di vista grafico si notano tutte queste pause e uno stile appunto asciutto, frasi brevi e secche.
Esatto. Anche questo è Tollak, tutti questi spazi bianchi, tutte queste pause. Il mio compito come scrittore è anche mettere insieme forma, stile, tono, contenuto. È molto importante per me. Il tono doveva avere una rabbia poetica, per così dire. Una solitudine poetica.
Concentriamoci un attimo sull'ambientazione. Perché l’ambientazione di questa storia secondo me è molto interessante. Perché hai scelto proprio questo setting e come influenza la storia?
Questa persona estranea, delusa, potresti trovarla anche in un grande città, a Torino, a Roma. In un appartamento. Una persona che sente che nessuno la capisce, la società, gli individui. Una persona così molto spesso è un uomo. Lo trovi ovunque. In ogni paese, anche in Italia credo, c'è un divario crescente tra governi, autorità, cambiamento e le parti rurali più lontane. E questo abisso è pericoloso. Quando non parliamo, quando non ascoltiamo, quando le autorità non ascoltano, accettano ciò che sta accadendo, le cose possono diventare pericolose. Dal punto di vista narrativo scegliere di ambientare la storia lontano dalla metropoli, dalla modernità, dal contemporaneo, significa anche isolare il conflitto. Lo rendi in un certo senso un archetipo. È un po' come un dramma, come una sorta di rappresentazione teatrale. Quindi eccolo qui, proprio questo piccolo mondo, una persona immersa nel paesaggio.
Questa poi è anche una storia di conflitti generazionali:
Sì, molto. Conflitti temporali e generazionali, che sono conflitti eterni. Dei giovani suoi contemporanei Aristotele diceva “sono i peggiori, sta andando tutto a rotoli”. È stato un grande critico della civiltà, di quei tempi e dei giovani.
L'ambientazione si adatta quindi perfettamente alla storia, alla forma che hai scelto. Così come la forma.
Sì, anche la forma, sono d'accordo.
E cosa ne pensi delle prime reazioni al tuo romanzo? Perché è una storia molto difficile da recepire…
Domanda davvero molto interessante. Questa storia parte da un luogo realistico ma del quale ho scelto di non indicare nomi di città, niente; ci sono la capitale e la città, il piccolo villaggio e poi c’è la valle. E quando è stato pubblicato e poi tradotto in altre lingue mi sono appunto domandato cosa sarebbe successo quando la storia avesse iniziato a circolare anche all’estero. In Norvegia ha avuto davvero un grande successo, la gente ne parlava sia in modo emotivo che politico, i politici stessi hanno iniziato a discuterne, quindi è davvero rilevante, ma qual è la differenza? C'è una grande differenza. Una grande differenza quando questo libro arriva in Italia e si lega al tema del femminicidio. Perché questo argomento è molto più forte e acuto in Italia che nel mio paese. Ho sempre pensato che fosse una storia sugli uomini e sulla violenza, un argomento a cui penso da quando ero bambino e mi dispiace dire che sono cresciuto in una casa con delle esperienze davvero brutte. Mio padre era un uomo violento e lui e mia madre si sono quasi uccisi a vicenda, quindi purtroppo conosco da vicino la questione. Come uomo penso sia ora che iniziamo a riconoscere la violenza, a parlarne e a parlarne soprattutto insieme alle donne, perché se non ne parliamo insieme, allora sarà la cosa peggiore.
Intervista esclusiva a cura di Debora Lambruschini. Ringraziamo l'autore, la casa editrice e l'ufficio stampa per la disponibilità.