«Se bona razza vuoi fare, da fimmina devi accominciare»: “Come l’arancio amaro” di Milena Palminteri

 

Come l’arancio amaro
di Milena Palminteri
Bompiani, giugno 2024

pp. 444
€ 20 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Non nascono dal nulla un padre che padre non è e una figlia che non può appartenergli. (p. 21)

Anni Sessanta. Carlotta Cangilosi vive ad Agrigento ed è archivista, sebbene le sue intenzioni non siano sempre state quelle: la donna, infatti, avrebbe voluto fare l’avvocato, ma in Sicilia (come, del resto, in tutt’Italia), a metà del Novecento, nell’avvocatura non dovevano «immischiarsi le femmine» (p. 13). Carlotta vive nella convinzione che nessuno le voglia bene ed è per questa ragione che gli uffici dell’archivio sono diventati la sua casa. La sua vita, quindi, sembra monotona e senza grandi imprevisti, fin quando, proprio fra quelle carte, scoprirà una denuncia della nonna paterna Rosetta a carico della madre, Nardina. L’accusa? Quella di aver comprato la figlia Carlotta. È da qui che inizia Come l’arancio amaro, l’esordio vincente di Milena Palminteri che attraversa la Sicilia dagli anni Venti agli anni Sessanta.

Non si tratta di un semplice e polveroso faldone d’archivio, perché quell’accusa aprirà uno squarcio nella vita di Carlotta, facendole mettere tutto in discussione. La donna, almeno ufficialmente, è figlia di Nardina Aricò e di Carlo Cangialosi, morto la sera della nascita della figlia in un terribile e mai chiarito incidente d’auto. La bambina è cresciuta, tra il ricordo del padre che non ha mai conosciuto e una madre fredda che si è comportata quasi più come istitutrice che come figura materna. Nella vita, però, di Carlotta altre figure hanno sopperito all’amore dei genitori: quello dello zio Peppino («Lei lo chiama zio per affetto e per rispetto», p. 12), che la avvia alla carriera da archivista, e quella, ben più importante, della cameriera, Sabedda, una donna umile che viveva poco distante da casa Cangialosi insieme al padre Bartolo. Carlotta non può (e non riesce) a ignorare tutti questi segnali che sembrano dirle che Carlo e Nardina non sono i suoi veri genitori. Da qui, inizia un’indagine serrata e difficile perché l’omertà, nel piccolo paese siciliano, sembra non essere mai finita, anche da parte dello zio Peppino, unico testimone di quegli anni.

Il dubbio della mia nascita, reso pubblico nel verbale di un notaio, mi opprime, per liberarmi vorrei non esistere adesso e non essere mai esistita. (p. 95)

La storia, dunque, si sposta negli anni Venti, quando Nardina, figlia di Bastiana, sposa Carlo, entrando a far parte della ricca (e quindi potente) famiglia Cangialosi, ma il peso di una colpa si allarga presto su Nardina: non riesce a rimanere incinta («E i picciliddi? Ne ha avuti picciliddi, Nardina?», p. 33). Nel frattempo, sempre a Sarraca, la giovanissima Sabedda porta in grembo il figlio concepito fuori dal matrimonio (altra colpa indicibile) con Stefano Damelio. Il destino delle due ragazze si unisce per non separarsi mai più, e tutto a discapito di Nardina e Sabedda. Artefice di un piano diabolico sarà la nonna Bastiana che non intende rinunciare a tutti gli agi della famiglia Cangialosi, solo perché Nardina non riesce a fare il suo dovere. A distanza di quarant’anni, è arrivato però il momento per Carlotta di scoprire il piano della nonna materna, ordito insieme al campiere (e mafioso) della zona, Don Calogero.

Nella mente della Bastiana, ormai corda di arco teso allo spasimo, scoccò proprio allora un’idea come freccia al bersaglio. [...] Cominciò a disegnarsi nella testa della currera un piano che qualunque altra persona di buon senso avrebbe definito criminale. (p. 35)

Sembra che ci sia un filo invisibile tra Nardina, Carlotta e Sabedda, che va di là del segreto in cui sono coinvolte, perché tutte e tre hanno sgomitato per ottenere (senza riuscirci) un grandissimo privilegio: quello di scegliere. Nessuna, infatti, ha avuto questo lusso, perché Nardina si è ritrovata nel ruolo claustrofobico di moglie, Sabedda era troppo povera anche solo per immaginare un destino diverso a quello di serva e Carlotta ha dovuto rinunciare alla carriera da avvocato.
Sembra che la vicenda in Come l’arancio amaro sia lineare per quanto drammatica, ma intorno a queste tre donne si muove un mondo: quello della politica (l’avvento del fascismo in primis, che sembra tardare ad arrivare sull’isola), quello della maternità e la realtà dei piccoli paesi dove sembra non cambiare mai niente («la regola del silenzio valeva per ogni argomento e ogni interlocutore», p. 68).

Milena Palminteri racconta una storia di coraggio e lo fa con il respiro del grande classico, partendo dallo stile avvolgente che trasporta tra quei vicoli silenziosi e tra quei campi che nascondono vite intere, grazie anche all’aiuto del dialetto (utilissimo il glossario in appendice), che rende la lettura ancora più vivida. Ed è così che l’arancio amaro è simbolo ambivalente: incarna le sofferenze di una società patriarcale, dove alle donne era concesso ben poco, e, nello stesso momento, qualcosa di ben più speranzoso. Sì, perché da quella pianta, che «pare uno sbaglio della natura» (p. 120), possono nascere frutti ben più dolci, come, alla fine, è stata la nascita di Carlotta e basta questo per fare pace con il passato e andare avanti, non dimenticandosi però le due donne protagoniste della sua vita, Nardina e Sabedda.

Giada Marzocchi