Canto del buio e della luce
di Antonio Moresco
Feltrinelli, aprile 2024
pp. 592
€ 29,00 (cartaceo)
€ 17,99 (e-book)
Non è facile rapportarsi a Canto del buio e della luce, ultimo lavoro di Antonio Moresco, riuscire a essere sinceri ed equilibrati, e nel contempo saper dare spazio a ciò che per l’autore sembra essere fondamentale e urgente. Anche perché ogni libro di Moresco, spesso fluviale (questo, però, lo è meno: sono “solo” 592 pagine), mira a sgretolare le certezze della cultura occidentale, a creare squarci, a porre domande attraverso l’accostamento dicotomico, in un certo senso non dialettico. Nelle sue opere, infatti, non sembra possibile una soluzione serena, una soluzione in cui la sintesi sia data dall'assorbimento, da parte della tesi, dell'antitesi e, dunque anche, dal suo superamento: quando questa è contemplata, è sempre problematizzata, piena di frizioni interne insolubili e contraddittorie («essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere», scrisse Pasolini, autore caro a Moresco e con cui, quest’ultimo, ha dichiarato di aver «lottato» letterariamente).
In questa situazione, uno dei compiti della letteratura (e dello scrittore, di quell’intellettuale che per Moresco possiede un ruolo preciso all’interno della società) è quello di mettere in evidenza il carattere di compresenza degli opposti, l’esistenza di quelle caratteristiche antitetiche che convivono e che rimangono sempre individuabili. Scriveva nel Grido che ogni cosa è spaccata in due, che è spaccata in due ogni branca del sapere, sia quella tecnico-sociale («la politica, l’economia, la tecnologia…», Il grido, p. 38), sia quella culturale («sono spaccati in due Marx, Freud, Darwin… Ed è spaccata in due anche la scienza umana…», Il grido, p. 38); proprio perché è la realtà a essere divisa, problematica, proprio perché è la realtà stessa a spingere verso una riflessione di questo genere. Ed è così anche nel Canto del buio e della luce.
Nella discussione sul libro che ha tenuto a Pisa (Cantiere umanistico dell’Antropocene, 03/05/2024), Moresco ha sostenuto che è stato a lungo incerto sul titolo: in un primo momento, aveva pensato a Canto del buio, poi a Canto della luce; infine ha optato per quello pubblicato, poiché non sapeva se dare maggior peso al buio o alla luce, decidendo, alla fine, di mettere in evidenza il carattere oppositivo, e sempre problematico, che permea la realtà. L’opposizione non deve portare all’assorbimento, ma deve spingere alla conoscenza della complementarietà degli opposti: non ci può essere il buio senza la luce, come non ci può essere la luce senza il buio, in una complementarietà simile a quella che c’è «tra il fulmine e il tuono» (p. 588). Così, l'intera realtà si fonda su due caratteristiche fondamentali, simili e separate: «Tutto il mondo è buio. Tutto il mondo è luce», arriva a scrivere alla fine, a p. 581.
In questa situazione complessa e ricca di frizioni interne, allora, il testo non può che aprire orizzonti più ampi e in parte contraddittori, perché il compito della letteratura è primariamente quello di essere fomite di dubbio, perché il narratore è primariamente «l’osservatore, il più grande degli osservatori, o almeno il più vasto», poiché è «dentro il mondo, tra luce, buio e musica» (p. 588). Questo romanzo inconsulto, così lo definisce l’autore nell’importante nota finale (p. 585), sembra allora essere il risultato di un tentativo titanico di superamento, attraverso la visionarietà dello scrittore, della bipartizione del mondo, un tentativo che si muove attraverso la parola scritta, attraverso una parola che aspira a dar voce a ciò che non ne ha e che mira ad avvicinarsi sempre più al canto.
Per questo motivo il libro si muove su una struttura tripartita (Parte istruttiva, Parte sacrificale, Parte abissale), come dice apertamente l'autore dando in questo modo una chiave di lettura da tenere in considerazione; per questo motivo le voci dei tantissimi personaggi presenti in questa narrazione frammentata, vorticosa e ibrida si spingono «fino al canto» (p. 587), trascendendo le proprie caratteristiche (che tuttavia rimangono intatte, pur non essendo rappresentate mimeticamente) per creare una massa autonoma di conoscenze messe in tensione.
La volontà di uscire dall’impasse e dalla crisi cosmica che assume sempre più le caratteristiche di un diluvio universale, causato dal comportamento insensato dell’essere umano (guerra Russia-Ucraina, antropocentrismo scellerato), allora, è concretizzata, nell’opera, dall’importanza della voce delle persone, spesso comuni, di una voce che supera i limiti della parola scritta e s’innalza in un canto che prende sempre più le forme di una litania liturgica. La voce, così, serve a raccontare, a testimoniare l’evento epocale della perdita della luce, delle tenebre che invadono progressivamente il mondo intero («E poi racconterò a voce, soltanto a voce, con la mia sola e inarrestabile voce nel buio, con la mia nuda voce nel buio, nel profondo buio, nell’infinito buio», p. 14). L’importanza della musica e della voce all’interno della finzione è indubbia; ma è altrettanto indubbia la musicalità dello stile dell’intera opera: sono presenti frequenti ripetizioni, rime interne ai vari paragrafi, assonanze, consonanze, non per cercare di unire la prosa alla poesia, ma per avvicinare il testo sempre più alla preghiera. Si pensi alla litania dell’incipit:
«“Cosa sta succedendo?” si chiedevano le persone, guardandosi attorno prima stupite, poi sbalordite, poi spaventate, atterrite. Gli umani facevano sempre più fatica a riconoscere le cose sul filo dell’orizzonte. Le città a poco a poco sparivano, i contorni svanivano, il cielo e la terra si confondevano, era sempre più difficile distinguere la notte dal giorno. Gli automobilisti guidavano con gli occhi sbarrati lungo i rettilinei delle autostrade, leggevano sempre più a fatica i nomi delle località scritti sopra i cartelli. Gli orologi indicavano un’ora diversa da quella della luce. Donne e uomini si vedevano sempre meno dentro gli specchi. I bambini all’inizio si divertivano, perché potevano giocare meglio a nascondino». (p. 11)
Eppure, di questa ultima fatica di Antonio Moresco non se ne è parlato poi tanto. Poche sono le recensioni, poche le interviste, ancor meno sono gli articoli che vogliono problematizzare il pensiero che è alla base del romanzo e l’estetica di cui è intessuta quest’opera così stratificata, ibrida, a tratti magmatica, sicuramente complessa e degna di una riflessione profonda. Perché, anche se l’autore lo definisce come un romanzo, questo libro è una satura lanx che procede per accumuli stratificati di materiali eterogenei: sono presenti stralci di articoli di giornali (cartacei e digitali), di resoconti di guerra, di teorie scientifiche e musicali, di teoria del cinema, si trovano sezioni dall’evidente tono saggistico alternate ad altre in cui si racconta una fiaba, stralci di un manuale di un reparto e una pièce teatrale (intitolata, non a caso, Recita della luce e del buio oppure Recita del buio e della luce), ci sono immagini stilizzate di alcune posizioni della danza classica, dipinti e disegni del pittore Nicola Samorì. La temporalità, così importante negli Increati e nella costruzione romanzesca occidentale, in questa opera passa in secondo piano, cedendo il passo al bisogno atemporale della testimonianza, del canto, dell’unione di oggetti differenti all’interno di uno stesso recipiente.
Usando questa forma frastagliata e caratterizzata dall’ibridismo stilistico, Moresco mira a rompere le convinzioni dogmatiche del pensiero occidentale, a mettere a nudo i problemi sociali, ontologici, estetici che l’era dell’Antropocene impone, vuole spingere al dialogo, a una riflessione sul mondo contemporaneo, sul ruolo dello scrittore e dell’intellettuale, sull’importanza di una rimodulazione di concetti sedimentati nel tempo e nel pensiero sociale, oltre che in quello comune e nell’uso. Ma, allora, non può che sorgere una domanda: Moresco riesce a creare il dibattito necessario a rimodulare i concetti messi in campo? Come si può spingere alla riflessione una comunità, un'intera società se non si vede all’orizzonte una discussione, se la pietra, più o meno levigata, che è stata lanciata in uno stagno nascosto non fa tanto rumore? Domande che per ora non possono avere una risposta certa e a cui io non so bene rapportarmi. Forse, però, in attesa di una discussione e di un rumore che forse ci sarà, oppure no, anche una riflessione sulla forma estetica e sulle conseguenze conoscitive che questa implica può rientrare, magari in maniera carsica, all’interno dello spazio tradizionalmente lasciato all’etica e all’impegno sociale. Forse, allora, la riflessione estetica è già impegno, in qualche modo.
Giorgio Pozzessere