Leggere pericolosamente di Azar Nafisi, da qualche mese in libreria per Adelphi nella traduzione di Anna Rusconi, è uno di quei testi a cui continuerò a ripensare spesso, si intreccia a innumerevoli altre letture e spalanca mondi. E, soprattutto, mi ha ricordato quella che per me è la cosa più importante della lettura: l’impatto che la letteratura ha, deve avere, sulla vita quotidiana. È il quarto titolo di un progetto che Nafisi aveva avviato diversi anni fa con Quell’altro mondo, cui seguì il celebre Leggere Lolita a Teheran e lo scorso anno La Repubblica dell’immaginazione, tutti nel catalogo Adelphi: testi legati seppur ognuno con la propria autonomia, accomunati dalla materia letteraria che nella narrazione di Nafisi si intreccia alla vicenda personale, al ricordo, a una vita tesa tra Iran e Stati Uniti e, più di ogni cosa, alla riflessione sul ruolo attivo della letteratura nel plasmare chi siamo e il nostro sguardo sul mondo. Ogni capitolo di questa quadrilogia, quindi, è un atto d’amore verso la letteratura ed è profondamente ancorato alla realtà contemporanea, con considerazioni e riflessioni che abbracciano tematiche differenti: il razzismo, la paura, i totalitarismi, il ruolo degli scrittori e degli intellettuali nella società, il potere dei lettori, le radici.
Un saggio, per molti versi, letterario, ma anche un memoir nel senso più americano del termine e, non da ultimo, una lettera aperta all’amatissimo padre, scomparso qualche anno fa: è a lui, infatti, che Nafisi si rivolge in Leggere pericolosamente, strutturato come una serie di lunghe lettere a Baba, in un dialogo mai interrotto. Un omaggio all’uomo, all’intellettuale, un modo per mantenerlo in vita. Questo testo è molte cose, quindi, ma quale sia il significato più radicato è la stessa Nafisi a sottolinearlo chiaramente nella prefazione:
Lo scopo di questo libro è coinvolgere la lettrice e il lettore e renderli parte attiva di fronte a domande quali: di fronte all’assolutismo, come gestire i nostri moti di rabbia e frustrazione? Come combattere le menzogne, per sostituirle con la verità? Come opporci all’ingiustizia, evitando di lasciarci paralizzare da fantasie di vendetta? Come agire in modo giusto con chi è stato ingiusto verso di noi? Come comportarci con il nemico, senza arrenderci né diventare come lui? (p. 23)
«Renderli parte attiva»: mi sono soffermata a lungo su queste parole perché penso da sempre che l’atto di leggere sia molto più dello scorrere parole e pagine, ma qualcosa di potente che ha un impatto sulla nostra vita e sul mondo che ci circonda. Leggere – quanto meno leggere in un certo modo – ci insegna a interpretare il mondo e, forse, a cambiarlo. Perché anche leggere, oggi, è quanto mai un atto politico. È questo intreccio di letteratura e militanza a rendere particolarmente efficace la quadrilogia di Nafisi che riesce a mantenere in equilibrio ideale entrambi gli aspetti. Nonostante ne abbia titolo, l’autrice rinuncia a salire in cattedra e impartire sterili lezioni di letteratura o di critica letteraria per tentare invece di trasmettere – con innegabile competenza ed efficacia – la passione per gli autori e i testi scelti, diversi tra loro per origine, modalità narrative, tematiche. E, ancora, l’obiettivo di Nafisi è spingere il lettore a pensare con la propria testa, mettere in discussione le proprie certezze, osservare la realtà in cui viviamo e la letteratura liberi da preconcetti, interpretare il mondo. Per farlo si “serve” di testi differenti, da I versi satanici di Salman Rushdie a Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates, passando per Ray Bradbury, David Grossman, Margaret Atwood, James Baldwin, Zora Neale Hurston e altri ancora.
Leggere pericolosamente è un libro che stimola il pensiero, sollecita le nostre capacità di lettori troppo spesso invece sopite da uno scorrere superficiale delle pagine, tra apatia e fruizione vorace. Azar Nafisi ci ricorda quanto pericolosa sia la superficialità, soprattutto nel tempo che stiamo vivendo:
A rappresentare un pericolo per il benessere di una società non è soltanto la censura, ma anche l’indifferenza creata dalla costante domanda di intrattenimento e sensazionalismo, il desiderio di mantenersi sulla superficie delle cose per evitare le complessità e difficoltà insite nelle idee e nell’immaginazione. (p. 54)
Iraniana emigrata da molti anni negli Stati Uniti, Nafisi ha compreso da tempo il potere dei libri in un regime che li mette al bando e perseguita i suoi autori, ma anche nell’apatia e indifferenza delle democrazie perché è proprio qui e quando smettiamo di leggere che «stiamo spianando la strada ai roghi di libri». Questo libro nasce nel pieno della prima – ho paura a dirlo, ma tra una manciata di mesi scopriremo se sarà stata l’unica oppure no – era Trump, con tutto ciò che ne è conseguito. Nafisi, cresciuta in un totalitarismo, è allenata a cogliere i segni del pericolo, le crepe della democrazia e mette in allerta i lettori, perché «l’ostilità dei tiranni nei confronti delle idee e dell’immaginazione è attuale oggi come ieri. E non soltanto nelle società dittatoriali come l’Iran, ma anche nelle democrazie come l’America».
Delle numerose e fondamentali riflessioni cui l'autrice ci invita a prendere parte due mi paiono particolarmente dominanti nel discorso: la questione razziale e la comprensione del nemico. Parto dal discorso razziale, con tutte le sue implicazioni, e dalle considerazioni su James Baldwin, autore mai abbastanza letto soprattutto fuori dagli Stati Uniti e che invece oggi più che mai mi pare urgente riprendere e ricordare, di cui tra l’altro quest’anno ricorre il centenario della nascita, il 2 agosto.
Qualcuno potrebbe sostenere che di questi tempi nemmeno leggere un autore come Baldwin può essere d’aiuto, perché sono tempi che richiedono azione, non lettura. Io invece dico che certe letture sono già parte integrante dell’azione. È importante saper indirizzare la rabbia e non lasciare che sia lei a manovrarci, così come è importante sapere come portare avanti la lotta e superare gli ostacoli che incontra. (p. 173)
Il discorso su Baldwin sul razzismo, sulla rabbia, si intreccia inevitabilmente in queste pagine alle proteste che hanno incendiato il mondo dopo l’omicidio di George Floyd e servono non soltanto a sottolineare l’urgenza di un problema di razzismo tanto profondamente radicato nelle nostre società tutte, ma anche a ricordare ancora una volta quello che dicevo sostenendo che leggere è un atto politico. Perché, appunto, la lettura diventa «parte integrante dell’azione» e ciò che scegliamo di fare di noi dopo aver letto certe storie ha un impatto sulla realtà che ci circonda. Scegliendo di non restare indifferenti. Ma leggere Baldwin oggi ha una portata davvero notevole anche per la necessità come dice Nafisi di «saper indirizzare la rabbia» e non permettere che sia lei a manovrarci, anche se una parte del mondo si aspetta questo invece. Ecco dunque che la letteratura può diventare «un atto di resistenza contro la disumanizzazione» nella lezione appresa da David Grossman e dal suo struggente romanzo A un cerbiatto somiglia il mio amore, per costringerci a guardare il nemico negli occhi e «considerarlo come essere umano» in un processo, secondo Nafisi, attraverso il quale riaffermare la nostra stessa umanità.
In questo intreccio di saggio, testo critico, riflessioni personali, Nafisi costruisce una storia fatta di tante altre storie, un dialogo ininterrotto con la letteratura e la forza straordinaria di incidere sui lettori e sul mondo. Ma, dicevo, è anche una lunga lettera d’amore al padre perduto, che mi ha commossa profondamente: pagine che dedico un po’ anche a me stessa e a chi cammina in un dolore simile. Mentre, come Nafisi, gironzolo per le strade e mi domando «se sto mettendo i piedi dove li avevi messi tu».
Debora Lambruschini
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