Sembrava nato con un tremendo fuoco addosso, una smania incessante di consumare se stesso. Soltanto il gioco d’azzardo e l’assassinio potevano placarla. E man mano che Ziya si consumava, si convinceva di diventare più potente e comandare il destino. Non si sarebbe potuto accontentare di nulla di meno. (p. 166)
Quando si leggono storie intense, si “corre” la fortuna di affezionarsi fortemente a qualche personaggio e, nel caso de I dadi, ultimo lavoro del prolifico scrittore turco Ahmet Altan, non amare Ziya, il giovane protagonista, è impossibile. È un ragazzo coraggioso, leale, che sa conquistare il rispetto di tutti e sa anche nutrirlo nei confronti di chi lo merita, anche se si tratta di una donna.
I dadi è un romanzo di formazione, intenso, coinvolgente e, a mio parere, anche struggente, perché ha sin dalle prime pagine quella malinconia tipica che accompagna le vite degli eroi puri e maledetti. È scritto in terza persona e tratta di una storia veramente accaduta ambientata in una Turchia lontana nel tempo, quella della crisi dell’impero ottomano e del gran vizir. Su questo sfondo si muove il giovane Ziya, che, per vendicare la morte dell’amato fratello Arif, uccide l’assassino di lui e viene perciò condannato all’ergastolo, in un penitenziario sul Mar Nero, a Sinop. È proprio tra le pareti delle carceri che il giovane, per curiosità e per noia, si avvicina al gioco d’azzardo, a quell’ebbrezza sospesa tra un lancio di dadi e l’altro che decide la sua insperata vittoria o la sua più cocente sconfitta:
Se pure gli avessero strappato via tutto, la vita, la giovinezza, il futuro, aveva scoperto una cosa che non potevano togliergli: i dadi. Quando li agitava nella mano la vita si fermava, eppure il tempo subiva un’accelerazione. […] Man mano si aggrappava sempre più stretto al gioco d’azzardo, arrivando a provare quasi un senso di gratitudine per i dadi. (pp. 35-36)
Le poche pagine in cui Altan tratteggia la vita di Ziya in carcere - a soli sedici anni! - sono vivide ed efficaci ed è indubbio che nascano dalla difficile vicenda personale dell’autore, ingiustamente condannato all’ergastolo per aver manifestato il suo dissenso relativamente agli episodi di violenza contro la minoranza curda e alle derive autoritarie di Erdoğan ai danni della libertà di stampa e di pensiero nella Turchia contemporanea.
I giorni non avevano nome. Nessuno chiedeva che giorno fosse, non aveva importanza. Tutti i giorni erano uno solo. Le vite dei detenuti trascorrevano all’interno di una singola giornata sempre uguale, che cresceva fagocitando le altre e che risucchiava nella sua oscurità gli esseri umani fino a strozzarli. Non accadeva nulla che potesse dare una scossa al tempo. A volte la stasi li deprimeva al punto che facevano scoppiare risse e si ammazzavano a vicenda pur di creare un po’ di movimento. Non avevano altra possibilità che l’omicidio per smuovere il tempo e poterlo marcare. Non vedevano neppure quando il sole sorgeva o tramontava. Vivevano sempre nello stesso buio torbido, si sentivano marcire un istante dopo l’altro. (p. 36)
Insieme a Ziya, di cui conosceremo tra le pagine i pensieri più intimi e nascosti, il lettore comprenderà quanto sia difficile vivere avendo «addosso il peso della leggenda» (p. 34), sentirsi sempre in dovere di dimostrare di essere un vero uomo, senza paura, orgoglioso, che sfida i propri limiti, che sa anche uccidere per vendicare un amico o un fratello.
Ziya impara tutto ciò a sue spese prestissimo, dentro e fuori dal carcere. Grazie all’intervento di influenti uomini di Stato riesce a evadere e viene affidato a un pascià in Egitto dove vivrà sotto copertura. Qui il giovane farà le esperienze più importanti della sua vita, imparerà ad apprezzare il valore della solitudine - «nessuno conosce il valore della solitudine quanto chi è rimasto a lungo in carcere» (p. 48) -, ad ambientarsi al troppo cielo, alla troppa luce e a goderne al massimo, soprattutto nel frutteto della casa del pascià, dove incontrerà una ragazza che gli rimarrà nel cuore per sempre: Nora. Quest’ultima è una studentessa di medicina, ha studiato in Francia, è snella, delicata, un po’ enigmatica per Ziya, che non ha avuto grandi esperienze con le donne e rimarrà a lungo, nonostante la mano facile al grilletto, molto timido e insicuro nei loro confronti. Tra Nora e il nostro protagonista nasce subito un’intesa fatta di silenzi e passeggiate condivise quotidianamente: queste sono, dell’intero romanzo, le pagine più delicate, raffinate e liriche. La penna di Altan è decisamente cristallina, efficace e molto elegante anche nel condurre un profondo scavo psicologico nel protagonista: è di una raffinatezza unica nel descrivere la prima esperienza sessuale di Ziya con una prostituta greca che lo inizia al sesso:
Ricordava le sensazioni, lo stupefacente calore del corpo di quella donna, l’intensità di quel fuoco che da un corpo scorreva nell’altro, però non riusciva a ricordare il volto, e nemmeno il corpo di lei. E ricordava quel senso di vergogna che ancora perdurava. […] La traccia più definita che era rimasta di quell’atto simile all’omicidio era il calore della donna, che ancora sentiva e che non avrebbe dimenticato per molto tempo. Era come se avesse rubato parte di quel calore e lo avesse nascosto dentro di sé. (pp. 44-45)
L’idillio platonico con Nora, cui Ziya aveva rivelato di essere un assassino, viene interrotto dalla partenza di lei per la Francia, ma i sentimenti che prova per la ragazza, così indecifrabili agli inizi, gli saranno più chiari quando tornerà in Turchia, dove, lontano da lei, si renderà conto che la studentessa di medicina era davvero l’unica donna che si era guadagnata il suo rispetto e il suo amore. Grazie a un’amnistia concessa a tutti i prigionieri, il nostro protagonista tornerà a Istanbul dove si dedicherà a una vita malavitosa, alla dissipazione nei bordelli, al gioco d’azzardo, tutto concentrato a costruirsi un’ immagine di uomo valoroso, temuto e sprezzante del pericolo proprio come il compianto fratello ucciso. Il suo valore verrà notato da alcuni dissidenti al regime del gran vizir, un uomo detestato dallo stesso popolo e gli affideranno l’incarico di ucciderlo.
Appena salito al potere aveva fatto imprigionare così tanti intellettuali dissidenti che nelle carceri non c’era più posto. Gli oppositori avevano rimpiazzato ladri e assassini, rimessi in libertà dall’oggi al domani: […] Disprezzava tutti, di punto in bianco perdeva le staffe e aggrediva, era temuto finanche dal sultano; […]. (p. 128)
Ziya è «un’anima nata con una profonda tenebra dentro di sé» (p. 9), nella sua tempra è scritto anche il suo destino. È merito indiscutibile dello scrittore aver creato un personaggio così straordinario quanto autentico nei sentimenti che prova, nelle emozioni così delicatamente intime e schiette che il lettore troverà difficile giustificare, come è successo a me, la scelta narrativa di anticipare quasi da subito la sorte che toccherà il giovane. Altan semina lungo il sentiero del racconto diversi indizi che preparano il lettore all’esito finale, quasi fosse la conseguenza più naturale quando si ha di fronte un personaggio incapace di gestire la passione dei sentimenti forti e il bisogno di dimostrarsi coraggioso e sprezzante del pericolo.
Ziya era uno di quegli individui creati per autodistruggersi. La dinamite che lo avrebbe annientato era nascosta nella sua anima; […]. (p. 91)
I dadi è stato scritto proprio durante la prigionia di Ahmet Altan, incarcerato dal 2016 per reati di opinione e liberato poi nel 2021 grazie a una sentenza della corte suprema turca sollecitata da Amnesty International e dal mondo della cultura turca ed europea, mossosi in difesa di colui che è a buon diritto lo scrittore e giornalista più importante e premiato della Turchia. È stato proprio grazie alla solitudine e al silenzio della prigione che il nostro ha dato vita a diversi scritti politici e critici, opere di narrativa pubblicati in Italia da Solferino e da e/o (al link alcune nostre recensioni). La scrittura ha rappresentato per Altan quello che i dadi sono stati per Ziya: una sorta di magia, un modo per dimenticare la morte. Non si può non ricordare allora la dichiarazione di resistenza contenuta in quelle poche e incisive frasi scritte dall’autore nel suo toccante memoir Non rivedrò più il mondo (Solferino, 2018).
Potete mettermi in carcere, ma non potete tenermi in carcere, perché come tutti gli scrittori faccio una magia: posso attraversare i muri.
Marianna Inserra