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C'è un mancarsi che prescinde dal non essersi bastati: "I dieci passi dell'addio" di Luigi Nacci

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I dieci passi dell'addio
di Luigi Nacci
Einaudi, giugno 2024

pp. 128
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

A meno che non si sia adolescenti, di rado ci si lascia da un giorno all'altro. La separazione comincia di solito tra l'insalata e il caffè di un giorno feriale e si conclude molti caffè dopo, a volte davanti a un giudice, in un altro giorno feriale. L'amore però non si conclude mai, perché ciò che non ha principio non ha fine. (p. 12)

Ci sono libri che hanno il potere di parlarci direttamente, vuoi per la condivisione di un vissuto simile, vuoi per un linguaggio immediato, in grado di portarci a un confronto diretto con la storia. I dieci passi dell'addio è un romanzo che mi ha parlato - e per questo faticherò a considerare il testo che andrete a leggere una recensione, forse saranno troppo intime le righe a seguire -, ma non ha parlato alla me di oggi, ma a quella di vent'anni fa. Più romantica, sognante, convinta cultrice dell'irripetibilità di un amore. La stessa che, dopo una forte delusione, si è sentita dire da tantissime persone care che il modo migliore per non soffrire più era dimenticare, far passare il tempo. Luigi Nacci in questo romanzo, invece, suggerisce di essere sempre grati a ciò che è stato, a prescindere dalla fine che è sopraggiunta. Niente si cancella, qualcosa si idealizza - inevitabilmente, con le sue imperfezioni -, ma ci si deve sempre sentire legittimati a rivivere nel ricordo ciò che è stato. 

Così il suo protagonista senza nome racconta e talvolta si rivolge al "tu" della donna che ha amato e che se ne è andata per un tradimento che lui ha commesso. Perché? Non è importante, né si cercano autogiustificazioni. Eppure i dettagli della loro storia, dei loro problemi di coppia ma anche gli episodi di quando era tutto perfetto emergono qui e là. In particolare, tornano spesso per libere associazioni momenti che vengono riordinati in base al conteggio dei giorni che separano la coppia, allora ignara, dall'incontro dal notaio. L'io narrante si trova così in quella che è stata la casa dove hanno vissuto insieme - e dove lui, in passato, ha vissuto altri amori - a scrivere di loro e di ciò che è stato, forse per elaborare, forse per tenersi compagnia, forse per cercare una nuova direzione dopo un periodo di crisi. Crisi denunciata persino ai propri datori di lavoro e agli amici («Mi sono perso. È la frase che ho ripetuto di più», p. 60), in una sorta di richiesta d'aiuto che domandava, in realtà, di lasciarlo col proprio silenzio e con una solitudine gelosa dei ricordi. 

E i ricordi sono spesso rimaneggiati, volontariamente o meno, dal trascorrere del tempo (a pagina 13, ad esempio, si legge prima «La memoria si deforma nel tempo» e poco dopo «Eppure il mio cervello produce questo ricordo»). Non c'è senso di colpa in questo manipolare gli eventi, né si ricerca l'assoluta verità (che è sempre, inutile dirlo, relativa al soggetto senziente). Eppure, in parallelo a questa profonda soggettività di membro di una coppia che si è sciolta, scorre la tendenza a partire dagli eventi privati per universalizzare emozioni e sensazioni in conclusioni che hanno spesso un sapore aforistico, se non sentenzioso. Un paio di esempi?

Nessun essere umano dovrebbe vivere in una casa senza amore. Alle creature delle case senza amore andrebbe garantito un rifugio per la notte. Una casa degli abbracci deve restare fino all'alba. (p. 11) 

Dopo gli abbracci che preannunciano la fine si torna a casa distrutti. Sei un profugo che ha perso tutto. Non sai più il tuo nome. (p. 17)

Si riscontrano anche commenti su modi di dire diffusi, che vengono (ovviamente) ripresi e corretti dall'esperienza dell'io narrante: 

La vita va avanti, si dice. Che sciocchezza: la vita va dove le pare. Va di lato, in diagonale, va a zig zag, si capovolge. Va come vanno gli animali selvatici: sul sentiero, alla ricerca estenuante di cibo, costruendo tane occasionali, scappando dai predatori. (p. 100)

E queste parti tanto generalizzanti, talvolta persino filosofiche e oracolari, che avrei apprezzato moltissimo vent'anni fa, al punto da sottolinearle e trascriverle nel mio quadernino con le citazioni, oggi ottengono un effetto diverso: mi fanno pensare (e forse sbaglio, chissà) che c'è troppa poca vita in queste pagine, che la storia d'amore personale, sebbene presente, sia stata annegata dalle riflessioni, talvolta dalla retorica (purtroppo) e dalle metafore (qualche volta sovrabbondanti). Benché queste scelte non siano mai estreme e dunque a molti lettori piaceranno (molte frasi sono facilmente "instagrammabili") - tant'è che il passaparola sul romanzo sta funzionando, dato che è già in ristampa a meno di un mese dalla pubblicazione -, nella me stessa di oggi I dieci passi dell'addio crea sensazioni contrastanti: mi porta a provare empatia quando rintoccano episodi del passato, mentre altre volte mi respinge, e questo accade quando la speculazione sembra un po' troppo compiaciuta. E mi dispiace, perché vorrei tanto mettere a tacere i "perché mai?" che ogni tanto insorgono davanti ad affermazioni improvvise dell'autore (ad esempio, in risposta alla domanda "Ma tu la ami?" della sua ex, in riferimento all'amante, lui dirà "Amandola, ti amo di più". Come come?) e abbandonarmi al romanticismo inequivocabile delle sue pagine. Ma forse crescere significa anche questo: diventare più razionali e cercare più storie "che puzzino di vita" da afferrare e profumino meno di sogno da contemplare. 

GMGhioni