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«L’uomo voleva disfare ciò che la natura aveva fatto»: la grande impresa del canale di Panama nel nuovo romanzo di Cristina Henríquez

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Tra due oceani
di Cristina Henríquez
NN editore, maggio 2024

Traduzione di Roberto Serrai

pp. 400
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Nel lontano 2016 usciva in Italia Anche noi l’America, romanzo corale della scrittrice statunitense Cristina Henríquez pubblicato da NN editore che raccontava le vite degli americani sconosciuti, ai margini:

Noi siamo gli americani invisibili, quelli che a nessuno importa nemmeno di conoscere perché gli hanno detto di avere paura di noi e perché forse, se facessero lo sforzo di conoscerci, si renderebbero conto che non siamo poi così cattivi, e forse addirittura che siamo molto simili a loro. E chi odierebbero, allora?

Ero una lettrice diversa allora, come lo sarò fra altrettanti anni. Nel tempo spero di aver affinato le mie capacità critiche, di aver arricchito il mio bagaglio culturale con studi e ricerche. Spero però anche di non perdere mai l’amore per le storie e la sensibilità talvolta di lasciarmi travolgere dall’impatto emotivo e umano che alcune di queste contengono. Anche noi l’America non era un romanzo perfetto, lo dicevo già allora, ma sicuramente era una storia che non mi aveva lasciata indifferente. 

A fine maggio NN ha riportato sugli scaffali questa autrice con un nuovo e interessante romanzo, Tra due oceani, nella traduzione ancora una volta del bravissimo Roberto Serrai, che firma anche la nota finale al testo, gettando uno sguardo sul lavoro del traduttore e su alcuni aspetti di particolare interesse del romanzo di Henríquez. Avendo letto entrambi i romanzi dell’autrice e molti dei suoi racconti credo di poter riconoscere un fil rouge a legare la sua produzione letteraria e che, al di là di ambientazioni e tematiche peculiari, è costituito dal campo di interesse specifico di Henríquez e dalla postura autoriale che ne ricava: dare voce a chi voce molto spesso non ha, raccontare l’umanità dietro la Storia e senza mai cadere nel pietismo.

E c’è, fin dalla novella Come Together, Fall Apart con cui esordì nel 2006 sulla rivista Riverhead, uno stretto legame con Panama e più in generale le storie di immigrati, legame che torna fortissimo anche in questo nuovo romanzo. È a Panama che ci sono le radici del ramo paterno della famiglia ed è lì che Henríquez ha trascorso tutte le estati della sua infanzia e adolescenza, assorbendone tradizioni e storia che hanno poi trovato la strada nei suoi romanzi e racconti. Tra due oceani si colloca quindi in questo solco, riprende molte tematiche e spunti cari all’autrice ma è evidente un grado diverso di maturità raggiunta. La storia è corale ma nella misura in cui i personaggi che la compongono e animano si susseguono capitolo dopo capitolo ognuno rivendicando la propria autonomia e peso narrativo; se in Anche noi l’America questo tipo di costruzione non riusciva a soddisfare la moltitudine di voci contenute, qui Henríquez pare rinunciare a forzare la scrittura in quella direzione per concentrare l’attenzione sulla portata delle singole storie e l’intreccio che da queste nasce. Trova poi equilibrio ideale fra vicende umane e storia coloniale offrendo al lettore uno spaccato puntuale ma narrativamente molto godibile non solo della grande impresa della costruzione del canale di Panama, fulcro della narrazione, ma anche dell’indipendenza del Paese e del complesso – ma direi pure sbilanciato – rapporto con gli Stati Uniti, della spinta verso la modernizzazione e l’impatto sulle popolazioni locali, fra realtà e invenzione letteraria. 

Tra due oceani è l’occasione per riflettere su questioni che sono tutt’altro che ancorate al tempo cui questa storia è ambientata, non tutte almeno, ma vivono nel mondo attuale, risuonano di conflittualità e problematiche simili.

Tre milioni di anni prima, aveva letto, l’eruzione di alcuni vulcani sotterranei aveva spinto in superficie grosse quantità di sedimenti, unendo i due continenti con il ponte di terra sulla quale tutti loro adesso si trovavano. Ora, evidentemente, l’obiettivo era dividerli di nuovo per poter passare da un oceano all’altro. L’uomo voleva disfare ciò che la natura aveva fatto. (p. 39)

Tutto parte o ruota intorno, si diceva, alla costruzione del canale di Panama, iniziata nel 1907 e durata sette anni di fatica, fango, perdite, sogni e illusioni, denaro, sfruttamento, rivalsa. Attraverso le vicende dei suoi personaggi, Henríquez mostra al lettore le due facce della medaglia per raccontare una storia che mescola militanza, tocchi di realismo magico, ambizione e patriarcato, razzismo, indipendenza, emarginazione, coraggio. Ma che è anche una profonda riflessione sul cuore dell’uomo, sui sentimenti, sulle relazioni. Senza mai cedere a buonismi, senza forzature o artifici: Henríquez racconta la vita creando perfettamente l’illusione che Francisco e l’amata moglie Esme, Omar, Ada, Lucille, Millicent, Valentina, Miller, siano reali quanto noi che li leggiamo, per la capacità di tenersi alla larga da facili soluzioni, sentimentalismi e sterili happy ending. Qualche consolazione per il lettore arriva, certo, ma è un equilibrio sottile che solo poche volte viene meno.

In una storia di questo tipo molteplici sono gli spunti di riflessione ma anche la soggettività con cui certe tematiche ci colpiscono, come le chiavi di lettura che scegliamo per entrare nel testo. La monumentale impresa del canale ha significato il lavoro, il sacrificio e lo sforzo di migliaia di uomini, che Henríquez salva dall’oblio, raccontandone la fatica quotidiana e l’umiliazione, ma anche il senso di comunità e cameratismo, il desiderio di cambiare la propria vita.

Avevano le mani coperte di vesciche e di sangue, a forza di stringere i manici di pale e picconi per ore e ore. Avevano dolore alle gambe, bruciore alle spalle, la schiena che sembrava spezzarsi in due. Erano sempre bagnati. Non riuscivano ad asciugarsi. Erano coperti di fango. Non riuscivano a ripulirsi. Gli scarponi si sfasciavano, e loro tremavano di febbre. Sotto la pioggia, cantavano canzoni. Agitavano le braccia e spalavano, senza smettere mai. (p. 50)

Se togliamo la pioggia incessante, le pale e i picconi non riconosciamo qualcosa di molto simile alle schiene curve dei braccianti, l’impossibilità di fermarsi, il lavoro incessante in qualsiasi condizione e tutto ciò che questo comporta? Il canale di Panama è stata una delle più grandi imprese ingegneristiche del secolo scorso, ma a quale costo? Decenni e chilometri di distanza ma sono ancora storie di sfruttamento, uomini senza nome se non per un trafiletto nelle pagine di cronaca. E, ancora, la grande impresa del canale ha significato anche la cancellazione di piccole comunità costrette ad abbandonare le proprie case, le proprie terre, per fare posto al progresso. Anche qui, chi è a pagare il prezzo delle nostre ambizioni, delle nostre necessità? Attraverso la storia di Valentina, del marito e della sorella, Henríquez racconta quella di una comunità che non vuole arrendersi e andarsene in silenzio mentre Panama e gli americani per pochi soldi cancellano le loro case, le loro vite, perché quelle terre servono alla grande macchina del canale.

È una storia di resistenza attraverso cui ricostruire l’intreccio che ha portato fino agli accordi, il passato coloniale di Panama, l’indipendenza dalla Colombia, la guerra. La storia del Paese che si intreccia a quella privata, in un equilibrio che Henríquez mantiene lungo tutta la narrazione aprendo così anche a riflessioni che riguardano le relazioni e i sentimenti, la solitudine, il desiderio di indipendenza, l’orgoglio. 

C’è un altro aspetto tanto politico quanto sociale che scorre tra le pagine ed è il razzismo: Barbados e Panama invasa dai bianchi per la costruzione del canale si fondano sul passato di schiavismo, sulla rigida divisione in classi sociali, su sfruttamento ed emarginazione. Episodi in apparenza minuscoli ma che danno l’idea di quanto radicato e devastante sia la discriminazione:

A volte portava dei libri dalla casa padronale e li mostrava a tutti, ma se qualcuno cercava di guardare da vicino quelle pagine li richiudeva di scatto perché nessuno li toccasse. Come una promessa, ma fuori dalla loro portata. (p. 69)

Quando a Barbados Lucille, figlia di schiavi liberati, mette al mondo le due figlie del padrone della tenuta, andarsene e cercare la propria strada è l’unica possibilità affinché quelle bambine dalla pelle troppo chiara – rispetto alla madre , ma non abbastanza per il mondo dei bianchi – non debbano essere costantemente soggette a pettegolezzi e vessazioni. Fiera e indipendente, saprà costruire da sé il proprio destino, trasmettendo lo stesso coraggio alla figlia Ada, che in silenzio nella notte parte alla volta di Panama in cerca di fortuna. Sono numerosi gli episodi di razzismo raccontati, molti eclatanti, altri più sottili ma tutti allo stesso modo da condannare. Finiamo per farlo pensando con orrore e prendendo le distanze da quella realtà tanto lontana nel tempo e nello spazio, dimenticandoci quando ci fa comodo che il razzismo assume forme nuove ma non è mai sparito del tutto ed è anche qui, nei nostri paesi democratici, nei quali le discriminazioni razziali non saranno più legittime ma ancora sopravvivono.

Vi ho detto poco o nulla della trama di questo romanzo e credo vada bene così, non è quello che conta in questa sede; la scoprirete leggendo, la trovate a grandi linee sulla quarta di copertina per rispondere alla domanda “di che cosa parla questa storia”. Quello che stavolta mi è parso urgente in modo particolare è fare mia la lezione di lettura di Azar Nafisi che con il suo Leggere pericolosamente mi ha ricordato ancora una volta quanto sia fondamentale che le storie, i libri, si facciano concreti nella vita reale, sappiano parlare a noi e al nostro tempo, talvolta con intrecci imprevedibili. Scegliete la vostra chiave di lettura per questo romanzo di Cristina Henríquez, che sia la storia d’amore magica tra Francisco ed Esme, il contrasto generazionale, la lotta, il patriarcato, ma non restate indifferenti. È ciò che auguro sempre a me stessa, lo auguro anche a voi.

Debora Lambruschini