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«L’unico futuro è il fuoco»: il presente incandescente raccontato dal puma di “Alla gola” di Henry Hoke

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Alla gola
di Henry Hoke
Mercurio, 2024

Traduzione di Valentina Maini

pp. 221
€ 17 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

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Ne abbiamo fatta di strada, da quando gli animali che dominavano la letteratura erano labrador retriever di nome Marley. Di fronte a un presente in cui gli esseri umani presi nel loro insieme (niente di personale, ci mancherebbe) si dimostrano ogni giorno che passa un po’ più incapaci di gestire il pianeta che si ritrovano sotto i piedi, ha sicuramente senso provare a decentrare un po’ la prospettiva e capire com’è che i non-umani (o, per usare una definizione sempre più usata proprio per sfatare la gerarchia implicita dell’umanesimo, i “più-che-umani”) percepiscono l’ecosistema che, volenti o nolenti, condividiamo in parecchi; un insieme ben folto, di cui i bipedi non sono che la minoranza.

È proprio questa l’operazione che Henry Hoke prova a fare in Alla gola, una novella breve e intensa come un’estate di afa e di temporali, che segue un puma californiano nelle sue giornate ricorsive, ripetitive e non lineari dal bosco di Griffith Park fino alle strade di Los Angeles. Una storia ispirata alla storia vera del puma P22, che ci ricorda quanto sia difficile tenere la natura fuori dai confini cittadini, che sembrano tuttavia prendersi sempre più spazio, inarrestabili e tentacolari. E lo fa con una modalità ben precisa, che è forse la connotazione più importante del libro: se è assai facile provare a far parlare gli animali come persone (la nostra infanzia costellata di film Disney ne è testimone) è meno facile cercare di capire con che linguaggio potrebbe davvero pensare un animale che, dopo aver abbandonato il suo nativo deserto per caso o per errore, si è ritrovato in un contesto liminale, antropizzato ma non troppo, un enorme parco dentro un'enorme metropoli, pieno di hikers losangelini che ci vanno a fare footing, di persone senzatetto che invece, in tenda, ci vivono, e del costante pericolo di incendi a causa del sole giaguaro (pun intended) della California in piena emergenza climatica. Il puma impara pagina dopo pagina il linguaggio di quell’ecosistema assurdo in cui si ritrova, gli stralci delle conversazioni che gli avvengono attorno, osserva e assorbe gli strani suoni e oggetti che incontra, come un bambino che scopre il mondo: e il risultato assomiglia quasi a poesia in prosa, con allargamenti di una tenerezza indicibile che si alternano a vette di caustica oggettività.

penso al sangue che piove dal cielo e mi rotolo sulla schiena e mi stiracchio e artiglio l'aria e apro la bocca e penso di acchiappare tutta la pioggia di sangue e che riesca a placare la mia sete e a farla sparire come non accadeva da quando ero piccolo

quando ho fame penso troppo al sangue

anche quando non ho fame

lecco i piccoli graffi che la mia selva mi ha fatto e assaggio la terra e le mie viscere e non mi dissetano per niente sanno di gatto e io sono un gatto e non mi piace il gatto

mi alzo e sputo e scuoto la testa e mi ripiglio

probabilmente non mangerei un bambino

Ed è veramente tenero e tragico insieme seguire la narrazione di un puma che impara che le persone possono dare fuoco alle foreste, ma possono anche coccolare un felino di sessanta chili come fosse un gattone domestico; che le persone possono essere mangiate, ma che forse a volte (non sempre) è meglio di no; che osserva la nostra specie da fuori, ci sente parlare e impara, assieme al nostro linguaggio, che per noi tutto ha un nome e una categoria ben delineata. Impara che ci sono gli umani e gli animali, che ci sono due generi, i maschi e le femmine (ma noi non sappiamo mai il suo), e a un certo punto, volente o nolente, si ritrova perfino affibbiato un nome. E mentre il puma impara, noi disimpariamo: che le assurde linee nette che tracciamo tra una cosa e l’altra, tra un genere e l’altro, tra la città e la natura, possono forse essere superate – o che forse, non sono mai esistite. Impariamo che alla fine non c’è poi tanta differenza nel rispetto che dovremmo porgere ai nostri animali domestici e ad altre creature meno coccolabili, così come non c’è poi così tanta differenza tra il nostro regno cittadino della “cultura” e l’assai meno sterile regno della “natura” che ci piace tanto solo se si presenta sottoforma di passeggiate domenicali e mercatini di frutta e verdura locale. Forse staremmo meglio anche noi se cercassimo, semplicemente, di vivere bene assieme tutti quanti. Superando tutte queste delimitazioni. Un po’ come se fossero l’autostrada che separa il deserto dalla città.

Marta Olivi