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"Il popolo immortale" di Vasilij Grossman: un inedito romanzo che con profonda umanità dipinge il coraggio del popolo sovietico contro l'invasione tedesca

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Il popolo è immortale
di Vasilij Grossman
Adelphi, maggio 2024 

Traduzione di Claudia Zonghetti

pp. 285
€ 20 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook)


Dall’autore di Stalingrado e di Vita e destino, entrambi pubblicati da Adelphi e tradotti da Claudia Zonghetti, un racconto rimasto inedito finora in Italia. Uscito a puntate nell’estate del 1942 su «Krasnaja Zvezda» (Stella Rossa), Il popolo è immortale narra la desolazione della Seconda guerra mondiale e il coraggio alla resistenza dell’esercito e del popolo sovietico contro l’invasione nazista.

Ebreo nato a Berdičev, nell’attuale nord dell’Ucraina, alla vigilia dell’invasione tedesca «Vasilij Grossman è alle prese con una brutta depressione. Poco più che trentacinquenne, è sovrappeso e cammina col bastone. Ciò nondimeno […] si offre volontario per il fronte» (p. 217). È invece chiamato a lavorare come corrispondente di guerra per «Krasnaja Zvezda», la rivista dell’Armata Rossa, ed è proprio grazie a questo romanzo a puntate, in cui traccia il primo scenario umano di una guerra disumana, che Grossman diventa uno dei più abili cronisti di guerra e acquisisce un’elevata notorietà, poi rinsaldata con le celebri opere sopra citate, ben più corpose e di ampio respiro.

Un inedito corredato da approfondite appendici – sull’opera dell’autore e sulla storia editoriale e di censura dei dattiloscritti –, interessanti tanto quanto il romanzo stesso, Il popolo è immortale rappresenta un poetico affresco dell’umanità sovietica nei primi mesi dell’invasione tedesca, dell’incredibile eroismo con cui un intero popolo, pur nelle disastrose condizioni e nei devastanti stermini, sconvolta da una guerra inattesa e mai vista prima, trovò la forza per contrattaccare.

È un romanzo basato sulle esperienze angosciose di chi l’ha scritto, che vide il fronte, la distruzione, i campi di concentramento (ne scriverà nel 1944 in L’inferno di Treblinka, primo reportage dai campi), e nelle cui pagine scrive non soltanto ciò di cui fu spettatore, ma ciò che visse in prima persona.
Non a caso il protagonista, Sergej Bogarëv, molto ha in comune con l’autore, ne rappresenta una sorta di alter ego: come Grossman, «non ha alcuna formazione militare e dal suo studio è stato sbalzato senza tappe intermedie […] Come Grossman è un intellettuale libero con un grande ventaglio di interessi e una spiccata simpatia per la prima generazione di rivoluzionari russi» (p. 228). È infatti attraverso lo sguardo da civile, ma soprattutto da umano studioso, di Bogarëv che la vivida immagine della guerra non ci viene consegnata con l’asprezza delle crude scene di distruzione e sangue, ma con la limpida liricità di un poeta che si sofferma sia sul cadavere di un uomo sventrato sia sulla dolce natura che tutt’attorno continua a vibrare: «Camminava a passo lento tra gli alberi, felice e triste insieme per la bellezza spensierata del mondo, per lo stormire delle foglie» (p. 55).

In numerosi passaggi Grossman, con suggestive sinestesie, esalta la bellezza della natura in contrapposizione agli orrori della guerra, lasciando che siano i suoi personaggi a osservarla e descriverla, o semplicemente a pensarla, inconsapevoli di essere uniti anche in questo negli attimi poco prima dell’assalto, come nei pensieri di Bogarëv e di Rodimcev e nel discorso di Ignat’ev:
Rodimcev è lì, con la faccia schiacciata a terra. […] Guarda con curiosità e rispetto, avidamente, cosa accade intorno a lui: le colonne di formiche che marciano lungo le strade invisibili all’occhio umano trascinando fili d’erba secca e piccolissimi bastoni «Forse sono in guerra anche loro» pensa Rodimcev […] Enorme è il mondo che i suoi occhi vedono, che le sue orecchie sentono, che le sue narici respirano insieme all’aria (p. 206).

La guerra ha toccato ogni forma di vita. Prendi i cavalli: cosa non sopportano! […] E non soffrono anche gli uccelli per colpa dei tedeschi? Oche, polli, tacchini […] Quanto bosco è andato perduto per sempre! Quanti frutteti! Ci pensavo poco fa: là, in campo aperto, si combatte, mentre noi siamo qui stesi in un migliaio di persone e mandiamo all’aria la vita di formiche e zanzare! […] Accidenti se è bello vivere su questa nostra terra, ragazzi! Solo in un giorno come questo si capisce che potremmo starcene sdraiati così per mille anni senza annoiarci. Respirando e basta (pp. 207-208).
In quanto intellettuale, Bogarëv ci affascina con le sue riflessioni, dietro cui pare celarsi sempre il nostro scrittore. Così si abbandona – la cifra stilistica con cui mette per iscritto le proprie considerazioni è proprio un sentimento di abbandono, di respiro profondo e catartico – nell’elogio alle idee marxiste e leniniste; così si abbandona a dare lode all’importanza del singolo individuo, alla natura della guerra come rinsaldatrice di amicizie forgiate «dal sangue e dal sudore della battaglia» (p. 96), come maestra di saggezza e crudeltà, «che si palesano nelle notti fatali della lotta per la libertà e la vita di un popolo» (p. 102). Così si abbandona infine a un approccio nobile e rigoroso della morte, che cammina fianco a fianco con l’onore e il coraggio del popolo, altro tema importante per Bogarëv/Grossman, che fin dal titolo del romanzo ne esalta lo spirito immortale, lo sforzo fatidico dell’ultima ora, il saper morire con sacralità e rigore:
Bogarëv correva avanti, pervaso in tutto il suo essere da una sensazione sconosciuta: lui spronava i soldati a seguirlo, ma, legati a lui come un tutt’uno eterno e indissolubile, anche loro spingevano avanti. […] Era il popolo che riconquistava la libertà. Sentiva anche il trapestio degli stivali: la Russia passava all’attacco (p. 210).
Anche in altri personaggi ritroviamo la storia e l’umanità dell’autore. La madre, Ekaterina Vasil’evna, nel settembre del 1941 viene uccisa dalle SS a Berdičev, mentre Grossman scrive questo romanzo, dentro al quale il personaggio di Čeredničenko subisce lo stesso lutto, allietato soltanto dal ritrovamento del figlio che credeva morto.

In un afflato che ricorda l’opera tolstojana, Grossman riesce a dipingere con la stessa linearità sia la distruzione che il respiro ancora pieno di speranza dell’uomo prossimo alla fine, lasciandoci con un finale ottimistico che rincara l’epicità della sua scrittura.

Federica Cracchiolo