di Ben Pastor
Mondadori, maggio 2024
pp. 420
€ 20 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Un sequel dei Promessi sposi? Lì per lì vacillano tutte le certezze di un lettore che ama Manzoni, quando si vede quel sottotitolo troneggiare, benché in carattere più piccolo, sotto La fossa dei lupi, recente impresa di Ben Pastor, che ha già all'attivo più di venti romanzi e un numero ancor più elevato di racconti. Un po' troppi, insomma, per peccare di una così spensierata ambizione. Dunque, come si può proseguire i Promessi sposi senza soffrire di un confronto per forza impari con il Manzoni?
E in effetti una nota dell'autrice in apertura del romanzo spiega come la sua opera si collochi anzitutto come omaggio a "don Lisànder", con qualche libertà narrativa più che perdonabile, se si pensa che è anzitutto deliberata e in secondo luogo controbilanciata da una ricerca storica a dir poco ammirevole. Sì, percepiamo fin da subito che dietro all'omicidio dell'Innominato che si consuma nelle prime pagine e alle indagini che ne seguiranno, La fossa dei lupi deve essere apprezzato e lodato dal lettore attento soprattutto per altri due aspetti: la ricerca minuziosa sul contesto storico-culturale, sulla geografia, sulla giustizia e sugli usi secenteschi e la propensione a uno stile ricco, che non tralascia descrizioni laddove servono (le stanze dei palazzi, in particolare, vengono letteralmente affrescate dal pennello attento ai dettagli di Pastor), anche con qualche fine gioco intellettuale e intertestuale (come non accorgersi che, nella descrizione delle opere che popolano gli scaffali di Polissena c'è una strizzata d'occhio alle ben più nebulose carte di don Ferrante nel capolavoro manzoniano?).
Chi dovesse leggere invece il libro per la pura curiosità della trama, troverà fin dal principio l'uccisione di Bernardino Visconti (che non viene chiamato quasi mai Innominato, in linea con la propensione di Ben Pastor a svelare le reticenze, gli pseudonimi e i silenzi manzoniani), colpito di notte con un archibugio, probabilmente a breve distanza. Tutti sanno della sua conversione, ma questo non basta a far sì che gli si perdonino i tanti misfatti compiuti in passato: non si conta la lista dei sospettati.
Lo sa bene Diego Antonio de Olivares, un giovane luogotenente di giustizia, protagonista che porta avanti le sue indagini gestendo di pari passo un conflitto interiore tutto secentesco, reso benissimo dall'autrice: l'uomo, infatti, ha in passato rifiutato di sposarsi, suscitando lo sdegno della sua ricca famiglia, perché la fede lo ha portato più volte a immaginarsi gesuita, un giorno. Ma quel giorno non è ancora arrivato («Olivares era devoto ma non era un santo», p. 291), e tante sono le tentazioni del presente - in primis, l'amore, cosa che nelle prime pagine del romanzo il nobiluomo non sospetta ancora. Sua sorella, d'altra parte, ha già compiuto il passo ed è da tempo una monaca di clausura, ben diversa, sia chiaro, dalla celeberrima Monaca di Monza che tutti ricordiamo e che anche nel romanzo di Pastor ritorna come personaggio secondario, ma ugualmente catalizzatrice della nostra attenzione.
Lontano dall'applicare meramente la legge senza interrogarsi su cosa gli si pari innanzi, Diego Antonio non intende percorrere la via più semplice, ovvero accontentarsi di un possibile sospettato, per mettere a tacere le malelingue, ma vuole che a pagare sia il vero assassino.
Determinato a indagare ovunque, anche in luoghi rischiosi persino per lui, Don Diego Antonio attraversa una Milano dove si possono ancora vedere i segni della peste (spesso anche rievocata come incubo o rinominata nei dialoghi) e dove persiste qualche focolaio, mentre l'economia in crisi si riflette a tutti i livelli. Anche i Tramaglino faticano, rientrati nel loro paese dopo il periodo trascorso nel bergamasco (e qui c'è effettivamente qualche licenza poetica, perché Manzoni tratteggia la storia dei giovani sposi prevedendo il parto di Lucia nel territorio bergamasco, mentre qui Pastor ritrae una Lucia ancora gravida, nel suo paese d'origine). Renzo, che mantiene il suo carattere un po' sanguigno, trattenuto a stento da quel famoso insegnamento che gli hanno dato le esperienze vissute in passato, è per Diego Antonio un sospettato: potrebbe essersi voluto vendicare del rapimento di Lucia in cui il Visconti era implicato, oppure no?
Se una sbiadita Lucia, riservata come nel romanzo manzoniano e con «una vocina bassa da suora» (p. 138), non colpisce affatto Diego Antonio, la pettegola e invadente Agnese lo sdegna più di una volta. La madre di Lucia, in effetti, viene descritta in modo piuttosto impietoso da Ben Pastor: attaccabrighe fin troppo intraprendente nel volersi fare giustizia, nella Fossa dei lupi riceve con piacere il corteggiamento di un soldato che l'ha addirittura seguita dalla bergamasca a Olate, pur vivendo altrove per non dare adito a voci. Tanti altri sono i personaggi noti che Pastor riprende, esprimendo spesso ironia, proprio come faceva il maestro Manzoni: don Abbondio non si smentisce mai, mentre la Monaca di Monza viene raccontata con tutta la sua drammaticità; Osio appare come il profittatore e superficiale che storicamente era, così come don Rodrigo, raccontato attraverso le voci degli altri, in quanto allo svolgersi degli eventi l'uomo era già morto.
Bellissima e pacificamente rivoluzionaria è la figura di Polissena, ricca vedova dalla cultura sterminata: i suoi occhiali e il suo lapis (all'epoca quasi sconosciuto) le permettono di indagare volumi ritenuti proibiti dalla Chiesa, ma lei è una donna di scienza, affascinata dalla cultura classica quanto dalle recenti scoperte astronomiche. Ed è questa sua acutezza a sedurre, così come la scaltrezza con cui decide di farsi un amante ma di non risposarsi a breve, con l'obiettivo di tutelare la propria libertà riconquistata dopo la morte del consorte.
Si potrebbe andare avanti a commentare questo romanzo per pagine e pagine, perché anche solo un confronto con i Promessi sposi permetterebbe di far dialogare lungamente le due opere, e senza che il romanzo di Pastor impallidisca davvero. Spiace, allora, che le pagine critiche lette fino ad ora insistano soprattutto sull'indagine, sul fatto che si tratti di un "poliziesco" secentesco, quando invece è l'aspetto storico a essere preponderante e totalmente meritorio. Ci si accosti però solo il lettore attento, quello che ha provato piacere nel percorrere l'opera manzoniana e che la ricorda piuttosto bene: solo così la lettura della Fossa dei lupi andrà oltre il semplice - e comunque pregevole - gusto di trovare un'indagine del passato per arrivare, invece, ad apprezzare appieno la complessa e improbabile (ma non impossibile, straordinario a dirsi) sfida di questa autrice di grande talento.
GMGhioni