Quello che serve di notte
di Laurent Petitmangin
Mondadori, 2024
Traduzione di Elena Cappellini
pp. 124
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Tutte le domeniche un padre, l’io narrante del breve romanzo di Laurent Petitmangin, va a vedere la partita di calcio del figlio. Sembrerebbe un atto di devozione paterna, si tratta invece di un disperato tentativo di mantenere un legame quasi perduto. Quella che viene narrata nelle prime pagine è infatti la storia di un progressivo allontanamento, di una resa senza resistenza. La malattia e poi la morte della madre hanno fatto di Fus un ragazzino problematico, tormentato. Il genitore rimasto, annichilito dal dolore, non è stato in grado di farsi carico di tanta sofferenza. Ha lasciato anzi che fosse il primogenito, abbandonato a sé stesso, a prendersi cura della casa e del fratello minore; non si è mai occupato neppure delle sue difficoltà scolastiche, sempre maggiori, a segnalare il suo intimo malessere.
Avrei dovuto perlomeno spronarlo. L’ho visto crollare a poco a poco. Le pagelle erano sempre peggio, ma cosa potevo farci? Quel po’ di energia che mi restava la conservavo per lavorare, per fingere che andasse tutto bene, […] per stare attento a non fare stupidaggini, stanco com’ero, a volte un po’ ubriaco. Tornare a casa sano e salvo. Perché dovevo pur nutrire le mie due bestiole, resistere senza bere finché non andavano a letto. E poi lasciarmi andare. (p. 13)
Eppure, almeno da un certo punto in poi, i segnali
di pericolo ci sono tutti: le nuove compagnie (tutti quei ragazzi ricchi,
con moto potenti, dalle tute mimetiche e le teste rasate), il tono dell’umore
sempre più cupo, una aggressività prima sconosciuta… Il padre, socialista
militante, non mette a fuoco il
cambiamento con la dovuta preoccupazione, anche perché Fus continua a
negare la sua appartenenza ai circoli
del Front National, a fingere perfetta armonia nella vita domestica. Anche
in questo caso, come nel romanzo di Davide Coppo (recensito qui) c’è una
contrapposizione tra due “parti”, una delle quali è la parte della chiusura, del razzismo, del rifiuto di ogni confronto
(«come rassegnarsi all’evidenza che il
proprio figlio stesse dall’altra parte. Non con Macron, ma con i peggiori
bastardi. Gli amici dei negazionisti, la feccia», p. 41). Subentra però a
questo punto una differenza sostanziale, che risiede nelle scelte narrative
dell’autore, nel modo in cui decide di complicare
lo scenario emotivo.
Il padre stanco, impotente, già arreso, suscita dapprima fastidio nel lettore, e non è sufficiente a riscattarlo interrogarsi su quale sia effettivamente il suo spazio d’azione. È impossibile, per lui, mettere il figlio davanti alle idee che sostiene; mentre il fratello minore, Gillou, pensa che nulla sia cambiato, che Fus resti sempre Fus al di là degli ambienti che frequenta, per il padre il comportamento e il pensiero ti determinano, e questo lo porta a non riconoscere più il ragazzo di un tempo. La conseguenza è l’erezione di un muro, fatto di rancore e silenzio, una strategia passivo-aggressiva che non fa che spingere il giovane sempre più lontano.
Sembrava di essere a teatro: mantenevamo le distanze, calcolavamo le entrate e le uscite, per non doverci ritrovare faccia a faccia nello stesso corridoio. […] Ormai ci muovevamo in modo innaturale, con mille cautele: bisognava lasciare un buon margine all’altro, se possibile aspettare che uscisse dalla stanza prima di entrare. Come se indossassimo uno scafandro da una tonnellata e vivessimo in una cazzo di zona radioattiva. […] La rabbia si stava smorzando, ma non la vergogna. (pp. 67-68)
Il fatto che la focalizzazione sia
sempre quella del padre impedisce di vedere cosa faccia realmente il
ragazzo quando si trova fuori casa e, al contrario, il contegno da lui tenuto
in casa appare sempre rispettabile, accomodante. Tale strategia narrativa risulta
interessante, perché obbliga a
interrogarsi maggiormente rispetto alle posizioni dei due personaggi
principali.
La svolta avviene in maniera imprevista, quando Fus viene
coinvolto in un grave episodio di
violenza. Quando il narratore lo trova esanime, insanguinato, e teme per la
sua vita, improvvisamente permette all’istinto
genitoriale di riprendere il sopravvento («avevo agito da padre che si trova di fronte un figlio in pericolo»,
p. 72). Solo a quel punto, di fronte alle necessità
di accudimento di un giovane uomo tornato quasi bambino, il padre avverte
il bisogno di ricostruire una relazione, solo a quel punto Fus ritorna figlio («c’era
tanto da recuperare, e in ogni senso», p. 79). Si tratta però di un percorso non facile e non lineare,
pieno di intime contraddizioni e di pensieri scomodi («facevo fatica a pensare che Fus non avesse nessuna colpa», p. 80).
È paradossale come, nella prosa di Petitmangin, che procede per frasi incisive, per lo più accostate
paratatticamente, uno spazio all’emotività e al trasporto del padre per il
figlio sia concesso solo nel momento in cui la situazione si capovolge, quello
in cui il ragazzo diventa effettivamente parte
attiva nella violenza, non più subìta ma agita. Al processo che vede Fus
imputato per omicidio (non si tema lo spoiler, visto che l’informazione è
fornita nella bandella di copertina), l’uomo riconosce il legame troppo a lungo
negato («Fus era ovunque. Senza di lui
cosa mi restava?», p. 85) e inizia a porsi domande sul proprio
coinvolgimento, peraltro senza riuscire a reprimere del tutto il senso di
distacco che lo domina («Siamo sempre
responsabili di ciò che ci succede? Era una domanda che mi facevo non per Fus,
ma per me», p. 86). La sua riflessione
è comunque sempre autocentrata, incentrata
su ciò che lui prova, su ciò che la
gente può pensare di lui, su quello
che la moglie defunta direbbe delle sue
mancanze… Non c’è vera empatia nel padre
per il figlio, ed è quindi impossibile per il lettore provarla per l’uomo,
al di là della colpevolezza del ragazzo, o della gravità delle sue scelte.
Anche quando subentrerà una conversione
emotiva, sarà comunque difficoltosa
e tardiva, sotto tutti i punti di vista.
Preoccupa vedere quanta narrativa oggi si interroghi sui nuovi estremismi di destra e sul loro potere attrattivo sui giovani. Nel
panorama italiano, abbiamo visto gli scritti recenti di Valentina Mira (recensito
qui) e quello già citato di Davide Coppo. Proprio La parte sbagliata, in particolare, presenta molte affinità
tematiche con il romanzo di Petitmangin, trattando una simile storia di fragilità e contro formazione.
Diverso è però il punto di vista: in quel caso si trattava di una
focalizzazione interna sul giovane neofascista, in questo caso invece a essere esaminato,
come visto, è il sentimento di un padre.
Questo romanzo è molto più
problematico, perché l’opposizione
tra bene e male appare molto meno netta, i confini tra giusto e sbagliato
sono più sfumati, difficili da interpretare.
L’adesione al neofascismo appare una conseguenza di un lungo percorso di scelte
più o meno consapevoli, proprie o altrui, ma anche di circostanze aleatorie,
talvolta sfortunate. Se ne intravede maggiormente la natura di un gorgo che risucchia, nella ricerca a tratti disperata e inespressa di un’appartenenza. Dal testo
emerge soprattutto una visione amara
della politica, che si riempie o di
fanatismi o di parole vuote, e pare sempre meno in grado di raggiungere la gente, di metterne a fuoco le
priorità e le esigenze. Ecco allora che ai vecchi partiti di massa ne
subentrano di nuovi, in grado di attrarre proponendo (nulla di nuovo per chi
mastica un po’ di storia europea) una morale
dell’azione, poco conta se violenta.
Allo stesso modo, dal romanzo escono molto male anche i padri, ovvero le generazioni più adulte, che non offrono modelli credibili, punti di riferimento stabili, che paiono incapaci di assunzioni di responsabilità, se non quando ormai la situazione è divenuta irreversibile.
Le fesserie di cui parlava [il padre della ragazza di Fus] non erano quelle dei nostri figli, assolutamente no, era qualcosa di più grande, di più inafferrabile, qualcosa che sfuggiva alla nostra comprensione e di molto. Al limite, erano le nostre fesserie, tutto quello che avevamo fatto e forse soprattutto tutto quello che non avevamo fatto. (p. 112)
Quello che serve di notte è un romanzo estremamente duro, pessimista, in cui non è dato vero riscatto e in qualche modo anche le sorti dei personaggi positivi (come il figlio minore Gillou, o l’amico Jeremy, generoso e idealista) appaiono segnate. Non si può non leggere queste pagine alla luce dell’avanzata del Rassemblement National in Francia, resa evidente anche dagli episodi di cronaca recente. Al contempo, le manifestazioni di piazza, spontanee e massive, che hanno avuto luogo negli ultimi giorni non possono che offrire al lettore uno spiraglio di speranza, e forse la possibilità di una lettura differente (se non del romanzo, almeno del reale).
Carolina
Pernigo