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La morte ti fa bella, mamma: "Rouge" di Mona Awad e quello che (non) abbiamo imparato da Biancaneve

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Rouge
di Mona Awad
Fandango, 2024

Traduzione di Milena Sanfilippo

pp. 420
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

Tuttə siamo sempre state perseguitate dal culto della principessa bellissima, l'archetipo della bellezza immutabile e incorruttibile del fiabesco, che ha plasmato i nostri modelli culturali e la nostra percezione del nostro corpo. C'era una volta una fanciulla dalla pelle bianca come il latte dai capelli neri come l'ebano. Sembra quasi di descrivere una figura spettrale, il calco di un'immagine vampiresca ed eterea con la quale il mito della bellezza ha costruito l'immagine femminile. Oggi più che mai, attraverso i social network e i canali di streaming, è possibile alimentare la nostra ossessione per la bellezza e per i trattamenti per preservarla il più a lungo possibile attraverso i tutorial. Peeling, skincare coreane, maschere antiage, bava di lumaca, bibitoni al collagene, patch per combattere le occhiaie, lozioni al retinolo, prodotti dai nomi profetici quasi fossero delle pozioni, basta googlarli per farsi un'idea: Siero della Giovinezza, Elisir Notturno della Lucentezza, Orchidée Impériale. 

Lo sa molto bene Mirabelle, detta Belle, detta Mira, a seconda dei casi, giovane commessa di un negozio pret-à-porter di Montréal, che spende cifre importanti per la sua beauty routine e che segue assiduamente, quasi fosse una sorta di nenia della buonanotte, un rituale religioso, i tutorial di bellezza della youtuber Marva. Dietro questa ossessione di Belle per la sua immagine e per la depurazione della sua epidermide c'è il mito distorto di sua madre, Noelle Des Jardins, attrice mancata, ex proprietaria di un negozio di abiti per signora e donna dal passato turbolento, che ha avuto Belle da un rapporto con un uomo che la ragazza non ha mai incontrato, e che sa soltanto essere di origine egiziana, del quale è costretta a portare al polso un bracciale come ricordo ma anche come monito, con l'occhio di Horus a fissarla. Anche questo divario, tra il candore della pelle di Noelle e l'incarnato olivastro di Belle, alimenteranno nella ragazza la convinzione (colonialista) di non essere all'altezza della bellezza di sua madre. 

Un giorno, improvvisamente, la routine schematica e monotona di Belle viene interrotta da una notizia terribile: la tragica morte di Noelle, che vive in California e che sembra essere precipitata di notte in circostanze misteriose da un promontorio nei dintorni della villa dove risiedeva. Il ritorno per il funerale di sua madre diventa occasione per Belle di indagine nel suo problematico e complesso rapporto familiare e sugli ultimi giorni di Noelle, nell'ossessione di sua madre per costipare la figlia in un'immagine di perfezione e di bellezza alla quale ambire, la continua sensazione di Belle di sentirsi meno bella di sua madre e il senso di invidia che Belle apprende dall'immaginario del fiabesco. Eppure, se Belle cova segretamente un senso di invidia per sua madre, alla quale si rivolge chiamandola autoritariamente 'Madre', Noelle di rimando prova invidia per la giovinezza della figlia, e per le possibilità che Belle ha di non commettere gli stessi errori della madre. Nella scena iniziale del romanzo, rievocando un momento dell'infanzia in cui Noelle si accingeva a leggerle una fiaba della buonanotte, Belle scopre il significato dell'invidia:

“Cos’è l’invidia, Madre?”, le domandasti.
“Invidia è quando odi qualcuno perché ha qualcosa che vorresti tu”, rispose con semplicità.
Tu rimanesti a fissare il suo riflesso nel vetro a tre ante.
“Tipo essere belle”, dicesti.
“Proprio così”, rispose con uno sbadiglio. Un barlume della sua gola rossa.
“Tipo essere belle. O giovani”, aggiunse, guardandoti di rimando dallo specchio. (p. 13) 

Pian piano, durante il suo soggiorno in California, viene così a scoprire del passato recente di Noelle e di come avesse sviluppato una strana ossessione per un centro di bellezza, o spa, di nome Rouge, che si distingue per i suoi prodotti dal packaging scarlatto, da cui il nome emblematico. Pian piano, mediante un'ambigua figura femminile che si manifesta al funerale di Noelle, Belle riesce ad entrare in contatto con Rouge, venendo guidata lungo il sentiero, come una rabdomante o una Dorothy alla ricerca del Kansas, dalle scarpe rosse di Noelle, rendendosi presto conto che si tratta di una setta dai rituali strani, il cui scopo ultimo è depurare le proprie clienti dal dolore dei ricordi, così da purificare l'anima e levigare la pelle. Uno dei mantra del culto di Rouge è: «estrai un ricordo, quello brutto, quell’inutilissimo Radicale Libero della Mente, il Comedone dell’Anima, proprio quello che ti spegne e ti corruga e ti adombra l’incarnato in maniera tanto orrenda». 

Attraverso i trattamenti di questa peculiare spa, riviviamo i ricordi d'infanzia di Belle, e il suo abusivo e problematico rapporto con la madre, allergica alle rose, l'ossessione infantile di Belle per Tom Cruise, che le appare attraverso una figura demoniaca nello specchio di Noelle che la istiga a compiere azioni malvagie, e via via notiamo come gli effetti del trattamento di Rouge agiscono sul presente di Belle, che sembra essere sempre più scollata dalla realtà, dirigendosi lentamente verso un precipizio molto simile a quello dal quale Noelle è caduta nel vuoto. Dimentica di dover ritornare la sua routine di commessa di Montréal, ritorna sui suoi passi cambiando idea in merito alla vendita della casa di sua madre, è convinta di essere ancora una commessa del negozio di abiti che sua madre gestiva e del quale realtà aveva venduto la propria quota da tempo alla sua collega Sylvia, è perseguitata da una figura maschile che ribattezza Hud Hudson il quale non rende immediatamente esplicito il suo intento, probabilmente salvare Belle dalla setta di Rouge e scoprire più informazioni a riguardo, e viene aiutata nella gestione del lutto da Tad, scanzonato toyboy tuttofare di Noelle che orbita intorno alla villa per prendersene cura, ossessionato con il lavare i vetri della casa, che continuano a sporcarsi di salsedine. 

Ci sono poi strane meduse rosse fluttuanti in un gigante acquario della Villa, che vengono utilizzate per ancestrali trattamenti di bellezza sotto la supervisione della signora in rosso e di due gemelli, un maschio e una femmina, figure eteree che hanno lo scopo di manovrare le fila del culto Arcano nel quale Belle è rimasta coinvolta come sua madre. Attraverso la mente della protagonista, che si deteriora e che si rinsalda di volta in volta, attraversiamo un viaggio nei labirinti più oscuri del rapporto tra una madre e una figlia, esorcizzando il mito della bellezza fiabesco che si è insediato nella carne dell'Io femminile, e che Mona Awad decide di esasperare al punto da farlo esplodere e collassare su se stesso, esponendone la sua fragilità. Se in Bunny, suo romanzo del 2019, nel quale giocando con lo stereotipo di Regina George e trasformando le confraternite femminili in sette di negromanti evocatrici di uomini-golem, Awad metteva a nudo il lato oscuro delle amicizie femminili, omaggiando classici come Meangirls, Heathers e Clueless, in Rouge è l'archetipo della madre, anzi Madre, ad essere messo sotto torchio, insieme all'ideale di bellezza e a come il capitalismo si sia approfittato attraverso i meccanismi patriarcali delle insicurezze femminili trasformandole in strategia di marketing. 

Il risultato è un romanzo pop che prende in giro l'industria della cosmesi e che cita i grandi classici del mistero e della commedia nera, come Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Mammina cara! di Frank Perry, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis e l'immagine del Doppelgänger femminile ritornata in auge con Il cigno nero di Darren Aronofsky; eppure, Awad riesce solo parzialmente nel suo scopo di costruire un immaginario narrativo efficace e convincente, preferendo utilizzare i vuoti di memoria della protagonista come espedienti per sviare da malfunzionamenti nel meccanismo narrativo. Se in Bunny, infatti, i vuoti di memoria di Samantha aiutavano ad aumentare la suspence e l'alone di mistero sui rituali ancestrali delle Bunny, qui l'unico effetto è quello di aumentare il senso di smarrimento del lettore di fronte a una trama già di per sé complessa e intrecciata, ma che ciononostante conferma Awad come una delle nuove voci postmoderne. 

È così, in un'opera in sei parti dalla narrazione non lineare e costellata di ellissi, espediente narrativo già utilizzato da Awad (forse più efficacemente) in Bunny, che guidiamo Belle nel viaggio di elaborazione del lutto, accompagnandola al ricongiungimento e alla riconciliazione con una madre problematica, apprensiva, a volte perfida, spesso egoista, eppure profondamente umana e vulnerabile.

Matteo Cardillo