di Antoine Wauters
Neri Pozza, 2024
Traduzione italiana di Stefania Ricciardi
pp.112
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Se la prima di copertina parla chiaro, ovvero quello che abbiamo tra le mani ci appare un semplice romanzo, Il museo delle contraddizioni gioca con le aspettative del lettore, contraddicendo fin dal primo capitolo la categoria stessa con cui si presenta in libreria. Dopo una prima consacrazione nel panorama letterario avvenuta con Mahmoud o l’innalzamento delle acque, un romanzo in versi liberi, questa volta l’autore belga Antoine Wauters non si limita a sperimentare con la forma in sé, ma sembra interrogare il posizionamento stesso della scrittura romanzesca e le sue contraddizioni politiche, per fare dell’incoerenza il segno e il sintomo della condizione umana contemporanea.
Che la dicitura “romanzo” sia stata scelta dalla casa editrice o dall’autore forse è meno importante, perché è più interessante osservare che Il museo delle contraddizioni non si traveste da scrittura ibrida, ma resta un’opera di finzione e un dispositivo di registrazione al tempo stesso; un archivio di voci estrapolate dai margini del mondo contemporaneo e rielaborate in una narrazione corale straniante, a colpo d’occhio simile a quella di Bestie di Dizz Tate (Neri Pozza, 2023).
Non è quindi per caso che questo museo-romanzo sembri più una moltiplicazione di voci romanzesche solo potenziali, private in partenza di una delle componenti fondamentali del romanzesco: la progressione lineare nel futuro. E per lo stesso motivo non troveremo i tradizionali capitoli di una storia, ma dei discorsi auto-conclusivi (ma non per questo provvisti di risoluzione) nella forma di veri e proprio monologhi teatrali che ricordano, a tratti, delle performance di slam poetry.
Se da un lato i personaggi possono sembrare delle entità astratte e disincarnate, i profili tracciati dalle loro storie sono fortemente riconoscibili in alcune figure archetipiche del nostro tempo. Incontriamo l’uomo anziano affetto da demenza senile e in fuga verso i ricordi; la generazione di pianisti, scultori e scrittori che s’improvvisano magazzinieri pur di lavorare; madri che non vogliono più parlare o interagire con i loro figli; poetesse ai margini che si trovano a scrivere romanzi di successo.
Come leggiamo (e ascoltiamo) nel primo “Discorso dal mare vietato”, un noi collettivo si rivolge a un interlocutore imprecisato, un giudice o un Dio in un monologo corale che funge da manifesto della rabbia, Leitmotiv dell’intero libro.
Il nostro corpo è quel poco che ci resta, signor giudice. Per noi, bucare e riempire la pelle di segni strani, anche ai nostri occhi, è fare qualcosa di bello. [...] Andiamo avanti nudi, senza più fiducia in nessuna parola, in nessuna azione, in nessun discorso, in nessuna verità, in nessun cielo, in nessuna promessa. (p. 8)
In questo primo discorso, è proprio il mare a essere vietato. L’orizzonte, e la prospettiva di un futuro costruibile che si configura come il dramma di un’intera generazione, quella millennial, alle prese con una precarietà economica e affettiva che distrugge ogni promessa di felicità del presente a cui si aggiunge un’emergenza climatica irrimandabile e un’esistenza sempre più disincarnata, privata persino “della nostalgia”. (p. 9)
L’attenzione prestata alla corporeità, nonostante l’indeterminatezza dei personaggi e del cronotopo che abitano, più fumoso che distopico, non è un aspetto casuale ma si riconduce alla ricerca di oralità e teatralità, e quindi al desiderio di una scrittura che torni a interpellare e a scuotere chi legge come fa chi parla verso colui e colei che ascoltano, attraverso quindi un coinvolgimento del corpo e dei sensi difficilmente consumabile nel tempo di una lettura individuale, quella che il romanzo come oggetto-libro potrebbe richiedere.
Emblematico, da questo punto di vista, è il "Discorso di una minoranza diventata maggioranza", in cui un gruppo di ex poetesse racconta, sempre per mezzo della prima persona plurale, il momento di passaggio dalla marginalità al successo, segnato dall’abbandono della poesia per “la chiarezza della prosa”. L’imperativo della leggibilità, più merceologico che politico, sembra inseparabile da quello della iper-visibilità.
«Le poesie di Ingeborg Bachman? Nessuno le conosce, quindi non esistono». Lo dicevano per aiutarci. «Se qualcosa incontra un pubblico esiste, altrimenti non esiste». (p. 75)
Se meno felice è la scelta di contaminare il monologo dei suoi personaggi con citazioni letterarie varie, da Sylvia Plath a Roland Barthes (citato in Agent secret di Philip Sollers) fino alle poesie di Ingeborg Bachman; più efficace è la dimensione quasi metaletteraria che assume la commistione di generi, dal teatro al lirismo. Questa si unisce a una riflessione sulle contraddizioni insite nel rapporto tra l’oggetto-libro e le forme della scrittura sovversiva; sulle ambiguità di una letteratura politica, incarnata e accessibile a tutti, ma pur sempre implicata in logiche mediatiche, merceologiche e di massa che rischiano di reificarne gli sforzi e appiattirne i contenuti.
Il museo delle contraddizioni resta un mosaico costellato da alcune delle voci marginali del nostro tempo restituite a sé stesse per denunciare le dinamiche discorsive dominanti e lo stato di impotenza e contraddizione in cui i soggetti parlanti o scriventi si trovano implicati. È a questa reificazione del linguaggio che Antoine Wauters oppone il letterario come fatto politico, rivendicando nella scrittura un luogo della complessità e dell’ambiguo, tematizzando le sue contraddizioni con ironia e consapevolezza e forgiando una lingua inusuale e metaforica per riscoprire il politico nel letterario.
Elena Strappato
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