di Marc Dugain
Ponte alle Grazie, 20 agosto 2024
Traduzione di Francesco Bruno
pp. 138
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Giada Marzocchi
€ 9,99 (ebook)
«Gli sfigurati hanno questo di particolare: che gli si nota, non si vede altro che loro, e, nello stesso tempo, non li si vede affatto [...]». (p. 122)
Il Primo conflitto mondiale ha sconvolto gli equilibri geopolitici, modificando i confini e distruggendo imperi millenari (come quello ottomano, ad esempio). Al di là del valore storico universalmente riconosciuto, ne esiste anche un altro individuale meno indagato, ma che coinvolge i soldati che furono, loro malgrado, protagonisti di quegli anni. Il significato personale non riguarda solo le vite dei caduti o dispersi, ma, soprattutto, dei feriti. Viene da chiedersi dunque: come potevano tornare alla “normalità” quei soldati che avevano il viso sfigurato o a cui erano stati amputati gli arti? Come riuscirono a riprendere le redini della propria vita, dopo la fine del conflitto? Sono queste le domande intorno cui ruota il delicato e sensibile romanzo di Marc Dugain, La stanza degli ufficiali.
È il 1914 quando il giovanissimo (appena ventiquattrenne) Adrien Fournier è chiamato alle armi. Adrien aveva una vita abbastanza serena: una carriera speranzosa; una famiglia alle spalle (legatissimo al nonno, dopo la morte prematura del padre); e, fino al momento della chiamata, ben poche preoccupazioni. È la chiamata alle armi a cambiare per sempre il suo destino. Adrien riesce a tornare, ma a quale prezzo? Dopo aver lasciato il suo piccolo paese in Francia, è mandato al fronte, ma, durante la prima operazione militare, è colpito in pieno viso da una granata. L’esplosione lo lascia tra la vita e la morte e con il volto sfigurato: gli porta via il naso, parte della mascella e del palato, sfigurandolo per sempre. Inizia qui il calvario del giovane, che trascorre tutti gli anni della guerra ricoverato in un ospedale militare poco distante da Parigi, sospeso tra operazioni micro facciali (ancora in via di sperimentazione in quel momento) e la vergogna di non avere più l’aspetto di prima. Come fare allora a sopravvivere? Come reinventarsi una vita? La salvezza sarà la compagnia degli altri degenti che, come lui, hanno subìto un trauma facciale:
[...] ciò che ci aveva uniti fin dalle prime settimane di guerra era una tacita decisione di rinunciare a ogni introspezione, a ogni tentazione di perdersi nella contemplazione del disastro della nostra esistenza, di cedere a un’amarezza dove il disincanto si alternava con l’egoismo del martire. (p. 67)
Tra di loro nasce una solidarietà talmente forte da tenerli in vita, speranzosi di poter riacquisire quelle “normali” funzioni che sembrano, in quel momento, impossibili. Tutti ne La stanza degli ufficiali vivono sospesi nella routine dell'ospedale («I giorni si susseguono tutti uguali, nonostante i tanti sforzi per animare la nostra piccola comunità», p. 65), scandita da terapie e dalle lettere dei famigliari che potrebbero sembrare una luce, ma che, in realtà, non fanno che alimentare quel senso di vergogna che i pazienti, solo quando stanno tra loro, dimenticano. Adrien mente ai famigliari, non vuole incontrare la sorella e la madre, preferisce rimanere «tagliato fuori dal mondo» (p. 110) anziché che farsi vedere.
La stanza degli ufficiali è una lettura colma di umanità, che racconta uno dei tanti drammi della Prima Guerra Mondiale che oggi è poco affrontato dalla letteratura storica (così come i cosiddetti “scemi di guerra”). Tutti quei soldati portarono sul loro viso le conseguenze di un conflitto che non avevano deciso e cui furono chiamati senza possibilità di scelta. Marc Dugain racconta una storia non scontata che travalica «la trincea fangosa, l’umidità che [...] entra nelle ossa, i ratti neri» (p. 7), insomma la “classica” letteratura bellica, indagando i traumi fisici e, soprattutto, quelli psichici degli «sfigurati» (p. 93), anche dopo la fine del conflitto.
A un primo approccio, potrà sembrare una lettura drammatica, ma non è così, perché La stanza degli ufficiali è soprattutto intrisa di amicizia, solidarietà e (tanta) speranza. La mente di Adrien è la vera forza narrante del romanzo: il ragazzo non prova a suscitare pietà, ma, al contrario, lotta per mantenere la dignità, ultimo baluardo della sua vita ampiamente distrutta. Il suo è un viaggio storico, sociale, intimo e psicologico che parte con l’eroismo e finisce con la vergogna, il disagio e la voglia di tornare a vivere. Le stesse persone che prima li applaudivano e li acclamavano come “salvatori della patria”, al loro ritorno non riuscivano più a guardare gli “sfigurati”, vergognandosi di com’erano ridotti e sentendosi colpevoli per aver accettato (e voluto) quella guerra che rovinò le vite di tutti: di caduti e dispersi, sfigurati, ma anche dei famigliari, che dovettero fare i conti con il peso di quello che avevano sostenuto, o perlomeno, accettato senza ribellione.
La guerra era finita da sei mesi, ma i suoi residuati avrebbero continuato a circolare per molti anni. Lo sguardo dei miei concittadini mi faceva pensare che non erano ancora pronti ad accettarci. (p. 104)
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