Benedetta Cibrario, vincitrice del Campiello 2008 col romanzo di formazione Rossovermiglio, torna, dopo il romanzo Per ogni parola perduta con una bella raccolta di racconti il cui titolo è già una dichiarazione di contenuti: Sono molte le cose umane. Si tratta di un’opera che contiene sette scritti inediti e una novella, Lo scurnuso, già pubblicata con Feltrinelli nel 2011. Umanità ed eleganza sono il binomio che contraddistingue tutti i racconti del volume: i personaggi sono autentici, vivi, verosimili, colti nelle loro debolezze e timori, nelle loro speranze e attese, persi nel loro angolo di solitudine.
[…] e comunque i personaggi dei libri che ho letto e di quelli che ho scritto, a quanto ne so, potrebbero tranquillamente essere fatti della stessa materia di cui sono fatti i fantasmi; o essere, perché no, un gioco di riflessi, un inganno dell’occhio. Sono loro che abitano tutte le case della letteratura, visibili o invisibili, sempre autentici anche quando sono solo immaginati. (p. 306)
È così che Cibrario, confidando al lettore la genesi di questi racconti e del suo rapporto con la narrativa breve nella Postfazione, dichiara l’importanza della spontaneità e della vividezza dei personaggi in cui ci si imbatte nei libri di letteratura. Helen e Tomász del primo racconto Due capponi di prima classe, il giovane maestro Breno Balangero de Il passo dello stambecco, la bambina dell’affascinante racconto L’interferenza e tutti gli altri personaggi delle storie, compresa la stessa statuina in terracotta de Lo scurnuso, sono figli del genio creativo della scrittrice e questa conoscenza intima, perché accomunata dall’universalità dei sentimenti di cui essi si fanno portatori, consente la loro vivacità sulla pagina e al lettore permette di partecipare autenticamente alle loro vicissitudini come se fosse con loro dentro a una stanza segreta e di diventare testimone silenzioso di racconti toccanti, tragici, delicati, intimi. Cibrario si muove in contesti storici diversi, dalla fine del Settecento, al primo Novecento fino ai giorni nostri e questa varietà si riscontra anche nei luoghi, in quanto le stesse ambientazioni di alcuni racconti sono ridotte a pochi metri quadrati, come quelli di una stanza in una palazzina moderna, altre sono costituite da un piccolo villaggio montano o un’intera città grande come Napoli: in questi luoghi la scrittrice immagina, vede e ascolta:
Se provassi a spiegare come mai quando parlo di certi romanzi o racconti mi viene più facile dire che ho abitato dentro dalla prima all’ultima pagina, questa nota diventerebbe un racconto in se stessa; posso solo dire che quando si legge (e quando si scrive) ci si muove come ospiti nelle stanze di case altrui. Alcune splendide, altre scomode; ce ne sono di così ben arredate che uno non vorrebbe venirsene mai via. (p. 305)
Il primo racconto è uno scambio epistolare tra un uomo e una donna nell’immediato dopoguerra: lui, Tomász, è lo chef e lei, Helen, la Direttrice aggiunta dell’hotel Welbeck. Sono anime scampate all’abisso che si arrampicano sulla parete del ritorno difficile alla normalità e lo fanno immergendosi in un vivace carteggio che comincia prima con i consigli sul menù giornaliero e poi prosegue col raccontarsi anche delle loro vite. Molto interessante il resoconto delle proprie vicissitudini e passioni presentato come menu da parte di Helen, la parte più chiacchierona e allo stesso tempo più reticente dello scambio epistolare nell’ accettare i diversi inviti a cena che lo chef, più introverso e pratico, le avanza. La confidenza e la complicità che si crea tra i due trapelano neppure tanto velatamente dai nomi con cui si appellano l’un l’altra a inizio lettera: da “chef” a “Tom caro”, da “Direttrice” a “Helen”, ogni tanto con qualche passo indietro come succede quando per qualche timore di essersi lanciati troppo in là, si cerca di raffreddare con cautela la confidenza che si era creata. È una storia d’amore potenziale che, tra un guizzo di ironia e i altisonanti nomi di prelibatezze culinarie, si lascia leggere avidamente anche da chi non è abituato alla narrativa breve.
L’ambientazione montana campeggia nel racconto Il passo dello stambecco e dà la possibilità all’autrice di deliziarci con le descrizioni del paesaggio con un brevissimo excursus fantasioso, ma non troppo, sul valico delle Alpi da parte di Annibale con gli elefanti. Il protagonista è un giovane maestro proveniente da una famiglia che viveva di stenti in uno sparuto villaggio di montagna e come «altri giovanotti come lui si erano convinti che darsi all’insegnamento significava percorrere una strada in discesa, veloce, diritta e senza ostacoli» (p. 47). Niente di più errato. Breno Balangero, quando apre la lettera d’incarico proveniente dal Regio Provveditorato agli Studi, deve dire addio al suo sogno di insegnare in una scuola di città, con una scolaresca desiderosa di imparare, perché la sua destinazione è un comune ancora più isolato di quello in cui è nato. Si tratta di un paesino di poche anime che non ha mai avuto una scuola e quando le famiglie vengono a conoscenza dell’arrivo di un maestro sono contrariate all’idea di doversi privare di forza-lavoro per la causa dell’istruzione. A loro non serve la cultura; servono braccia per raccogliere legname e per la costruzione, serve l’aiuto delle ragazzine in casa. Nel racconto il lettore imparerà ad ammirare la caparbietà di Breno, che riesce a convincere alcune famiglie a lasciare che i loro figli frequentino le sue lezioni. Ci sarà un ragazzino, in particolare, che sognerà di diventare maestro come Breno ed è proprio lui che dà il titolo al racconto. Pregevole e accattivante la prosa utilizzata da Cibrario nell’occasione di questo scritto: la narrazione è in terza persona e le parti dialogate si alternano a quelle narrative ben amalgamate tra loro nelle pagine come se fossero un fluire continuo. I ritratti di questi montanari chiusi e sospettosi sono assolutamente realistici e si alternano a momenti di alto lirismo naturalistico.
Nel corollario vi è anche un racconto quasi magico: ne L’interferenza la protagonista e voce narrante è una bambina di nove anni che vive in un condominio con altre famiglie, tra cui una coppia di artisti, i signori Mättli. La bambina sente spesso i genitori parlare del vicino prossimo alla morte e dentro di sé, nell’innocente curiosità infantile, cerca di immaginarsela:
La battaglia invisibile e silenziosa, insospettata nella placidità del nostro condominio, si svolgeva all’ultimo piano: un evento irreversibile si stava preparando sopra la mia testa. Potevo osservarlo in tutta tranquillità dall’appartamento in cui abitavo e in cui vivevo un’esistenza che, in certi pomeriggi lancinanti di improvvisa consapevolezza, mi pareva irrimediabilmente noiosa. Il signor Mättli, o meglio la sua malattia, mi parve una straordinaria occasione. Avevo la possibilità di assistere a un evento tragico e definitivo, qualcosa che avrebbe mutato per sempre l’assetto della famiglia Mättli, quei due vecchi che uscivano e rientravano quasi sempre insieme, appaiati come tortore. (p. 100)
Tuttavia la piccola si renderà protagonista di una “interferenza”, di un piccolo grande miracolo, un espediente segreto che si va a frapporre tra il coinquilino e la morte, salverà il signor Mättli e rimarrà il segreto tra lui e la bambina.
Ho trovato emozionante anche il racconto La quercia di Pierre, ispirata a un brevissimo ritaglio di giornale come ricorda la stessa scrittrice nella Postfazione già citata: il protagonista è un guardiano di un bosco in Vandea, il cui compito è quello di proteggere il querceto, averne cura e tenere lontani i parassiti che divorano i tronchi dall’interno. È il racconto della tenacia umana, della laboriosità indefessa che, nonostante il fallimento e le avversità più grandi, riesce comunque a compiere qualche miracolo.
La laboriosità, il lavoro manuale e il talento sono ancora i protagonisti di un piccolo capolavoro della narrativa breve: Lo scurnuso. Figlia di napoletana, sballottata in diverse città italiane senza riuscire a mettere radici in alcun posto, Benedetta Cibrario ha voluto in qualche modo omaggiare Napoli e l’arte presepiale, attraverso la storia di una figura di terracotta, una accademia - questo è il termine tecnico - di un uomo storpiato dalla malattia, realizzata da un artista vissuto verso la fine del Settecento e arrivata indenne, superando le diverse guerre, a una bambina dei nostri giorni. La parola “scurnuso”in napoletano indica non solo la persona che prova vergogna perché è timida, ma anche quella che prova un senso di inadeguatezza nello stare al mondo. In questa novella la scrittrice mette proprio in scena, come se stesse realizzando un’opera teatrale, non solo la città di Napoli (tra l’altro immaginata mentre era nella sua casa in Val di Susa basandosi sui racconti di famiglia e sui ricordi delle vacanze infantili passate nella città), ma anche la laboriosità, il fuoco creativo dell’artista artigiano che con le proprie mani creava dei pezzi unici di rara bellezza proprio come quelle statuine che in origine erano interamente di terracotta, alte una quarantina di centimetri per possedere le quali molta gente appassionata era disposta a indebitarsi pur di averle nel proprio presepio. Sono molte le cose umane: le emozioni, la vita, la morte, ma sono cose umane anche la tenacia e l’ispirazione artistica.
Sono molte le cose umane è una raccolta che testimonia ancora una volta la grande capacità che ha la scrittura di Cibrario di creare connessioni non solo tra i personaggi e chi legge, ma anche tra le stesse storie: sono i sentimenti umani, la profonda “compassione” sentita più come partecipazione di chi scrive verso i suoi personaggi a creare un fil rouge che unisce i racconti come piccole perle in un braccialetto terminando con un racconto più lungo, un piccolo capolavoro. Va segnalata come sempre l’eleganza della penna di Cibrario che tiene insieme racconti variegati per ambientazione storica e personaggi e che tesse le trame con grande maestria.
Marianna Inserra
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