La società occidentale ha un rapporto binario con i mostri. Mostro diventa spesso il sinonimo di bestia orribile, creatura ripugnante, persona che ha commesso azioni inumane e perciò mostruose. Nel mondo greco, all'immagine dell'eroe dal corpo tornito, dalla spada invincibile e dallo scudo lucente si contrapponeva sempre la figura di una creatura dannata eternamente dagli dei funzionale solamente a reificare il potere dell'eroe attraverso la propria morte. Pensiamo a Perseo e Medusa, Ercole e l'Idra di Lerna, Beowulf e Grendel, Alice e il Ciciarampa. C'è qualcosa nei mostri che mi ha sempre attirato. E non si tratta soltanto dell'indiscutibile carisma dei mostri e dei cattivi: nonostante Crudelia DeMon volesse fare una pelliccia con centouno cuccioli di dalmata, sfido chiunque a indossare le fantasie animalier come solo lei sa fare, senza sembrare una concorrente di Temptation Island. La cosa che più amo dei mostri però è la loro capacità, come una muffa viva, o come un disastro naturale, di essere incontenibili, di creare disordine, e di riuscire sempre a smascherare l'ipocrisia dei sedicenti normali, che hanno sempre avuto bisogno dei mostri per dare un senso agli eroi.
Ogni capitolo della storia è intervallato con la riproduzione delle copertine delle riviste horror a fumetti che dis compra a Karen e che andavano molto di moda a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, insieme ai b-movies dell'orrore di cui Karen è una grande appassionata. Altre peculiarità di Karen è la sua tendenza a rappresentarsi come una bambina licantropo, e solamente in una tavola del primo volume abbiamo modo di vedere il volto umano di Karen, che canalizza in questa rappresentazione mostruosa di se stessa la sua identità queer: Karen infatti si scoprirà ben presto essere attratto dalle ragazze e il primo volume si aveva guidato attraverso il suo percorso di accettazione della propria sessualità. L'altro grande mistero nonché colonna portante di tutta la narrazione è la morte di Anka Silverberg, la vicina di Karen di origine polacca e grande protagonista assente di questa storia, la Laura Palmer di questa storia, che viene rinvenuta morta all'interno del suo appartamento con un foro di proiettile all'altezza del cuore.
Scoprire se la morte di Anka sia stata un suicidio o se ci sia qualcosa di più torbido dietro sarà il compito di Karen durante tutta la vicenda narrata, e andare a fondo nella vita di anca sarà il pretesto per riportare alla luce il trauma sommerso dell'Olocausto dal quale Anka è scappata, e che ci viene raccontato attraverso dei nastri sui quali è incisa la voce della donna defunta che Karen riesce ad ascoltare grazie all'aiuto del vedovo della signora Silverberg. Nei nastri, oltre al dramma della Shoah, Anka racconterà di un mondo di prostituzione minorile, di riti esoterici, e squallidi bordelli di bambine. La sua storia rappresenta una profonda riflessione sulle conseguenze della guerra, sui compromessi morali che le persone devono fare per sopravvivere e sulle cicatrici invisibili che rimangono. Non a caso Karen sceglierà di colorare il volto di Anka di blu, il colore della tristezza, a sottolineare la malinconia indecifrabile della donna, che ricorda l'incomunicabilità del trauma della Scelta di Sophie, dove il primo piano in chiaroscuro di Meryl Streep racconta a singhiozzo l'irraccontabilità della persecuzione razziale.
Ciò che, a mio parere, lascia l'amaro in bocca di questo secondo volume sono gli infiniti punti interrogativi ai quali non viene data risposta, nonostante l'ampio sviluppo della seconda parte venga utilizzato da Ferris per dipingere con più accuratezza lo scenario di crisi socio-politica dell'America della fine degli anni Sessanta, tra lotte razziali e guerra del Vietnam e proteste degli hippies. Eppure sembra che Ferris si sia trovata quasi a voler concludere la storia dicendo al lettore: non importa sapere la risposta ad alcune domande, perché alcune cose non hanno davvero bisogno di risposte, così come la morte, la violenza e il genocidio non possono avere una valida spiegazione.
Dopo otto anni dall'uscita della prima parte di questa storia, Emil Ferris ci conduce verso il finale della sua storia, che con abilità e realismo ci racconta un'America in cui non si riesce a distinguere il volto dei mostri da quello delle persone, in un carnevale tragicomico di dannati vaganti, dove la voce di una bambina queer che si crede lupa mannara si solleva dal brusìo circostante, catalogando tutto sul suo quadernone proibito, e restituendoci un mondo di tragedia, tenerezza e mistero. A Emil Ferris va riconosciuto l'enorme merito, insieme a Mike Mignola (Hellboy), Jude Doyle (Il mostruoso femminile: Il patriarcato e la paura delle donne) e Paul B. Preciado, di aver restituito dignità ai mostri, trasformandoli in araldi della diversità e della sovversione.
Matteo Cardillo
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