Allora una nuvola sola, grande, piatta, candida nel chiaro di luna, ma soffice e leggera leggera, si fece avanti. Di mano in mano che si avvicinava, si stese di più, perse qualche lembo; si forò, ma si richiuse: non molto compatta, quasi per cadermi addosso: a pena sorretta dal vento che doveva durare fatica a smuoverla. A mezzo cielo, si fermò. Allora m’accorsi che tutto l’orizzonte ormai ne era coperto. La luna, che io non potevo vedere, la illuminava così bene di sotto che quasi abbagliava gli occhi; specie la sua punta; mentre il turchino del cielo s’era fatto più nero senza stelle. […] ma mentre così aspettavo che mi passasse il malessere e di tornare bene in me per andarmene, mi rasentò, come se fosse mandato da quella stesa di nebbia così alta, un vipistrello. (pp. 35-36)
Il vipistrello che sfiora l’io narrante e gli procura qualche brivido insieme a quello dovuto frescura della sera, un piccione che interrompe il sogno ad occhi aperti del narratore, la rondine che stride squarciando il ricordo di un paesaggio primaverile di petrarchesca memoria, insieme a tante altre creature abitanti dei cieli, degli stagni, dei luoghi della casa, compaiono in ogni racconto di questa splendida raccolta del famoso scrittore senese Federigo Tozzi.
Ogni breve scritto, ambientato tra le campagne senesi, è il ritratto, intenso e toccante, di uno slancio dell’anima che si sente compenetrata nella natura, di un ricordo di un passato mai sfiorito, del calore dell’amore sincero verso una tale Clementina, oppure, dello sgomento della solitudine di un giovane riflessivo e timido. «Specialmente la sera soffrivo troppo, e non accendevo il lume per non vedere le mie mani: la tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale, sempre più greve; e mi sentivo schiacciato sulla sedia» (p.19).La verità è che le bestie di Bestie sono sul serio inspiegabili. Ci sono, punto e basta. Anzi, è proprio questo loro esserci-punto-e-basta che sgomenta, questa loro estraneità al resto della narrazione a formare lo specifico della narrazione, che non per questo fallisce - per l’assenza di un legame simbolico tra le due linee, la linea dell’uomo e la linea dell’animale - , anzi di questa antinomia vive proprio perché brusca, insanabile. (pp. 165-166)
Momenti di immensa tristezza o di gioia, dipinti con un tratto così plastico da sembrare vivi e palpitanti, proprio come gli orsi, le lumache, le formiche, le cavallette, le tartarughe, la civetta, la rana e tutte quelle creature che, al loro apparire, interrompono l’atmosfera del racconto per farsi puntare i proiettori su di loro. Sono elementi di compagnia, o di disturbo, a volte sembrano epifanie che conferiscono quell’aura di mistero e di ineffabilità all’attimo o alla riflessione, o volte fungono da medium tra questo mondo e un altro, incomprensibile.
Se si vuole leggere un Tozzi diverso, meno conosciuto, o lo si vuole proporre alle nuove generazioni, questa agevole raccolta non è inferiore quanto a valore letterario ai suoi romanzi più famosi, e ha il pregio della brevità, della profondità delle argomentazioni e della bellezza del linguaggio, lirico sì, ma diretto e immediato, che incarna sentimenti universali e parla della solitudine, dell’attesa dell’amore, del rapporto conflittuale coi familiari, del desiderio di abbandonare i luoghi in cui si è nati, dell’infanzia perduta tra disincanto e attesa del futuro.
Sentirsi solo è un piacere che spaventa. Un’ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza e la conversazione fatta con un amico e un’amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già così lontana che pensavo se l’indomani ambedue si ricordassero di conoscermi. Con il chiaro di luna in bocca credevo di masticarlo; e c’era tutta la strada che voleva saltarmi addosso. Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta. (p. 85)
Marianna Inserra
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