“Senza dolore non nasce l’arte”: evadere e ritrovarsi con “Il mio sottomarino giallo” di Jón Kalman Stefánsson

 




Il mio sottomarino giallo
di Jón Kalman Stefánsson
Iperborea, 2024

Traduzione di Silvia Cosimini

pp. 413
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)


Chi dice di capire il mondo è un idiota oppure un bugiardo (p. 127).

Tutto ne Il mio sottomarino giallo rimanda, per chi conosca l’opera di Jón Kalman Stefánsson, alla consueta complessità strutturale, al continuo intersecarsi di diverse linee temporali, alla varietà dei sentimenti affrontati – perché varia, difforme, stratificata è di fatto l’esistenza umana. Tutto inizia (o si conclude?) nel presente, dove l’alter ego narrativo dell’autore avvista in un parco il suo idolo, sir Paul McCartney.


Sin da bambino, Stefánsson si è fatto accompagnare dalle canzoni dei Beatles. Yellow Submarine è per lui un riferimento al «nostro desiderio, doloroso e infantile, di ritagliarci un posto sicuro nella vita, un mondo parallelo dove gli obblighi e le batoste della vita reale non possono raggiungerci» (p. 17). Per Jón, il primo strappo doloroso è stato la morte della madre, che si è sottratta troppo presto al dialogo, troppo presto ha negato la sua voce. Il figlio, allora, per tornare a risentirla, per restituirle la parola, ha iniziato a cercare nella letteratura, in particolare nel testo più antico, più alto a lui noto, la Bibbia. Ma anche in quelle pagine ha trovato più contraddizioni e incoerenze che risposte. Il Dio veterotestamentario non era infatti per lui un eroe adeguato, non portava con sé quella cifra di verità che andava cercando. Adesso, diventato uomo, c’è qualcosa che sente il bisogno di dire a Paul McCartney. L’intero romanzo è il lungo intermezzo nel quale lo scrittore cerca le parole giuste per farlo.


Anche in questo caso, come in Paradiso e inferno, tutto ruota intorno a un frammento che cambia la vita. Non si tratta di un versetto biblico, piuttosto di un estratto dal poema più antico del genere umano, l’Epopea di Gilgamesh, un inno al vivere il presente, ma anche a non dimenticare ciò che è stato; una celebrazione della scrittura come strumento per sconfiggere la morte, ma anche un richiamo al dolore che, come brace, si annida sempre nel nostro cuore. Non si può dire però con sicurezza se questo frammento ritrovato, inviatogli da un caro amico riemerso dal passato, sia davvero il principio, o se sia piuttosto la risposta che da anni l’uomo andava cercando, quella che, più che placare le sue inquietudini, lo rimette in moto, lo risveglia a se stesso.


È un Jón Kalman Stefánsson ancora nuovo, quello che il lettore trova in questo nuovo romanzo: ben più maturo di quello incontrato nel precedente volume di matrice autobiografica, Crepitio di stelle. Qui l’autore diventa, se possibile, più interlocutorio, interagisce con il suo pubblico, lo guida attivamente nella lettura, e in salti e interferenze che si fanno più arditi che mai, che sfidano i limiti della razionalità e sfociano in qualcosa che ha tanti tratti del realismo magico.


Il romanzo, del resto, è una celebrazione del potere della narrazione di creare mondi, di portarti altrove, di dar vita a ciò che plasma tramite la parola (il piccolo Jón lo scopre bambino, quando viene catapultato sul Calvario al seguito di Gesù e del pastore Ágúst, che racconta la Passione come se fosse stato presente). Al lettore viene dunque chiesto soltanto di abbandonarsi al testo con fiducia, lasciandosi trascinare da un flusso inarrestabile che, più che straniante, risulterà invece assurdamente naturale. Date queste premesse, si comprende la difficoltà a descrivere linearmente la trama di un volume che va letto con la matita in mano, perché tante sono le parentesi e le digressioni, tante le frasi e le osservazioni che viene voglia di sottolineare o ricordare. Il romanzo è come un puzzle, in cui fin dall’inizio vengono mostrati i pezzi, ma soltanto progressivamente lo scenario prende forma.


La linea narrativa principale è sicuramente quella del romanzo di formazione: a partire dalla morte della madre e per i mesi successivi, il tempo pare rallentare, e la focalizzazione interna è quella di un bambino di sette anni che cerca di decifrare il mondo intorno, con ingenuità ed esiti spesso paradossali, ma anche con la fantasia, la sensibilità e l’attenzione che rivelano già l’anima di quello che sarà, da grande, il poeta. Questo giovanissimo Jón intenerisce profondamente per la sua solitudine, per la ricerca inesausta di amore, per la fedeltà alla madre morta che lo tiene lontano dal padre, debole e incapace di affrontare il suo dolore, quel padre dalle mani pesanti e la bevuta facile da cui vorrebbe solo un segno di affetto o di riconoscimento che non arriva mai.


L’incomunicabilità con il genitore è un tarlo che rode il narratore anche adulto: nel 2022, quando si trova con Paul McCartney nel parco di Londra, il padre è morto ormai da dieci anni, senza che nulla sia mai davvero cambiato tra loro («Non l’ho mai visto. Per me mio padre è come la luna: mi rivolge soltanto una faccia», p. 202) e questo tema, in quanto irrisolto, ricorre continuamente tra le pagine.


Il mio sottomarino giallo è però anche un romanzo pieno di musica, che accompagna e commenta la narrazione, offrendole un continuo sottotesto (non solo i Beatles, ma anche David Bowie, Johnny Cash, Simon & Garfunkel, Lana Del Rey, Rod Stewart, e molti altri); vi si trovano l’amore, e l’amicizia, che spesso si presentano in forme inaspettate, come nel caso dei due anziani vicini di casa, Sesselja e Guðmundur, che offrono al piccolo orfano del piano di sotto un rifugio e l’attenzione che il padre non riesce a dargli. È un romanzo in cui Dio, la Morte e il Diavolo vanno spesso a braccetto, e si danno un gran daffare (del resto, «nessuno dei tre aveva mai avuto una madre né si era mai innamorato. Questo spiega diverse cose, o no?», pp. 95-96). La religione è un continuo punto di riferimento per il piccolo Jón, che continua a interrogarsi in attesa di risposte, e che cerca o crea parallelismi tra i personaggi biblici e la propria storia. Più che fonte di consolazione, però, la Bibbia fornisce materiale narrativo, e Dio – proiezione del padre assente – diventa un vero e proprio personaggio, un antagonista, spesso capriccioso e imprevedibile, capace di rimettere in moto qualsiasi situazione statica (per questo, incredibilmente, può capitare di trovarlo seduto accanto a Putin che guida all’impazzata una vecchia Moskvič, o in Vietnam, dove studia il funzionamento del Napalm pensando a come sarebbe stato utile a Gerico); Gesù, al contrario, è un compagno di giochi, un amico fidato, un modello sempre positivo, anch’egli in qualche modo doppiamente orfano, e per questo spirito affine.


Ma Il mio sottomarino giallo è soprattutto un testo sul tempo, sul passato che non muore, e continua a incidere sul presente in modi talvolta indecifrabili, e secondo rotte imprevedibili:

Il passato non passa mai, ci è costantemente vicino e si rifiuta di mollarci. Sta in tutto quello che facciamo, che pensiamo, che sentiamo, eppure non torna mai. (p. 94)

Il racconto è il luogo in cui le barriere temporali possono essere forzate, rimaneggiate, quello in cui «le voci dei morti e dei vivi si intessono insieme e creano un’armonia» (p. 145) ed è quindi possibile forse trovare un senso al nostro esistere. Il piccolo Jón, che passa le estati nei fiordi del Nord a casa della matrigna, ha come unici sodali i defunti del cimitero, che continuamente lo interrogano sul presente; e forse anche a questo si deve la ricorsività del ricordo, in particolare di quello di un tragitto in auto, su una vecchia Trabant, durante il quale un uomo goffo, un padre spezzato, aveva comunicato a un figlio settenne il «dato di fatto» della morte della madre. Quella Trabant continua dunque a viaggiare nei decenni, si ripresenta continuamente ed è in grado di invadere il presente, di entrare in un parco londinese nel 2022 e fermarsi ai piedi di Paul McCartney. Lo fa perché, come già anticipato, c’è un conto in sospeso, parole mai dette, lacrime mai versate, e forse è troppo tardi per ricostruire una relazione che non c’è mai stata, ma la letteratura può esprimere la tristezza, tizzone che arde dentro, e così facendo lenire parzialmente il dolore:

Qualcosa dentro di me si spezza. Qualcosa di molto antico, arcaico, e scoppio a piangere. […]

Piango come probabilmente avrei dovuto fare sul sedile anteriore della Tabant sulla Keflavíkurvegur nell’ottobre 1969.

Piango cinquantatré anni dopo.

Piango cinquantatré anni troppo tardi.

Piango le lacrime di cui sua io sia papà avremmo avuto tanto bisogno. Ma è troppo tardi. […] Perché papà se n’è andato con la sua tristezza, la sua solitudine penetrante, e io non posso più aiutarlo. Ho fallito. (pp. 271-272)

C’è stato un momento, nella vita di Stefánsson, in cui lui ha ripudiato il bambino che era, in cui ha cambiato sguardo e ha smesso di vedere il mondo con meraviglia. Poi, una mattina, la notizia dell’assassinio di John Lennon ha riportato tutto a galla. Il bambino di un tempo torna quindi a interrogarlo: «che cosa sei diventato, chi sei, si può sapere?» (p. 315). Sono questi interrogativi, insieme a una spintarella da parte del caso, che spingono Jón a ricominciare a sognare, a immaginare, a cercare di riscattare la propria vita. Per farlo, non è necessario tanto proiettarsi verso il futuro, quanto ricollegarsi col proprio passato, e nelle due operazioni non pare esserci del resto una differenza così marcata. Il romanzo narra quindi la nascita di uno scrittore, con tutte le difficoltà riscontrate nel tentativo di fare della propria parola un “sottomarino giallo” in grado di evadere, o di proteggere:

ho alzato lo sguardo verso il cielo […] convinto che tutto quello di cui avevo sentito la mancanza, tutto quello che avevo perduto e che per anni avevo cercato nella Bibbia, mi aspettasse nelle immensità dell’universo […]. E poco più di un anno dopo mi sono reso conto che non ero fatto per alzare gli occhi verso il cielo, ma per puntarli dentro i miei recessi più profondi ed esplorare lì le immensità, gli universi che aspettano di essere scoperti. (pp. 332-333)

Quella che ci si trova dinnanzi è quindi un’ode all’immaginazione, che rende tutto possibile, che permette di valicare limiti, di esplorare mondi, anche di comunicare coi morti, i quali a volte hanno più risposte dei vivi. Chi non c’è più deve poter contare su chi resta per continuare a vivere, ma al tempo stesso chi resta, portando con sé la memoria di chi è passato, non è più solo. Il romanzo è quindi un omaggio a loro, ma al contempo anche uno straordinario inno all’esistenza.

Se una volta hai pensato, creato, scritto in un modo che ha contato qualcosa, che ha toccato qualcuno, allora esiste, e aggiunge nuove dimensioni all’esistenza, la dilata, e per questo sfida la morte. (p. 408)

Il mio sottomarino giallo è un libro stratificato e complesso, certo non quello da cui partire per chi non abbia mai letto nulla di Jón Kalman Stefánsson, ma sicuramente il punto di arrivo di un percorso, di un’evoluzione della scrittura che risulta evidente a chi lo segue negli anni e che muove continuo stupore. E cosa dice infine Jón a Paul McCartney? Per scoprirlo, così come per commuoversi, per scoprire qualcosa in più sulla vita, e se esiste un riscatto per gli uomini che non hanno saputo dire i loro sentimenti, bisogna proprio arrivare in fondo al volume. È una camminata in vetta, richiede fatica, buon fiato e buone gambe. Ma ne vale certamente la pena.


Carolina Pernigo