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Osservare e lasciarsi osservare: "La foto mi guardava", il grido di libertà e bellezza di Katja Petrowskaja che fa rivivere il genere antico dell'ecfrasi

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La foto mi guardava
di Katja Petrowskaja
Adelphi, aprile 2024

Traduzione di Ada Vigliani

pp. 259
€ 24 (cartaceo)
€ 14,49 (ebook)

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Sovvertendo l'ordine degli elementi editoriali, suggerisco di iniziare a leggere questo volume dalla postfazione; è qui che, in poco più di una pagina, Katja Petrowskaja ci dice qualcosa che ci sarà fondamentale tenere a mente durante la lettura del libro, qualcosa che la riguarda e che può riguardare anche noi nel profondo. 
La postfazione ci racconta che La foto mi guardava è un testo che non parla della guerra "ma è stretto nella morsa della guerra", che dopo l'invasione russa dell'Ucraina era impossibile per lei scrivere come prima e che quindi si è messa alla ricerca di una modalità espressiva che trasformasse l'inespresso in parole nuove, coniugando bellezza e orrore, silenzi e scoperte.
Nasce così un testo che si inscrive nel genere antico dell'ecfrasi (dal greco èkphrasis), cioè la descrizione verbale delle opere d'arte visive (in cui storicamente la parola riveleggia per virtuosismo con l'espressione dell'immagine), ma che si rinnova dall'interno con forza per la sua capacità di dialogare con le varie dimensioni del contemporaneo. 

Il legame con il conflitto in Ucraina si spiega anche guardando alla biografia dell'autrice, nata a Kiev nel 1970 da una famiglia di origini ebraiche e trasferitasi poi in Germania. Oggi una delle più acclamate scrittrici e giornaliste tedesche, del suo romanzo Forse Esther abbiamo parlato qui, raccontandolo come un viaggio nella memoria, nelle genealogie familiari, una storia di ricordi, identità e appartenenza. 
La Storia domina indiscussa anche in quest'ultimo volume, una raccolta di cinquantasette racconti che sono ecfrasi di fotografie. Ogni testo entra a dialogo con una foto, la descrive, ce la porge come in regalo. Le parole originano in modo diretto dalle immagini, nello spirito di una divagazione letteraria che a volte ci culla nel ricordo di vite lontane, altre risveglia bruscamente la nostra coscienza.
Gli scatti al centro de La foto mi guardava sono stati scelti liberamente da Petrowskaja nel corso del tempo: alcuni arrivano dal proprio archivio di famiglia, altri sono stati scoperti per caso in un mercato delle pulci o dentro un volume fotografico, in altri ancora ci si è imbattuti durante viaggi o visitando mostre fotografiche. Tutti hanno qualcosa che l'ha attratta, rapita, in certi casi persino spaventata. La scrittrice ci spiega ogni volta da dove nasce l'emozione che la foto le ha suscitato portandoci dentro vite che non sono le nostre ma che con noi entrano in chiara relazione.
In origine i testi sono stati pubblicati con cadenza fissa su un quotidiano tedesco, oggi sono raccolti in quello che ci appare un album fotografico di ricordi - la data scandisce ognuna delle ecfrasi - in cui si tiene traccia dei moti del cuore e dello spirito. 

Il volume si apre con lo scatto di un Minatore del Donbass che ci soffia in faccia il fumo della sua sigaretta, il volto nero carbone in cui a stento si intravede la luce degli occhi; a fargli compagnia ci sono ritratti di famiglie vissute in ogni tempo e geografia (dalla Georgia all'Alentejo, dal Brasile a Lesbo, dall'Ucraina alla Polonia), ritratti di artisti in lotta come Pëtr Pavlenskij che incendia il portone della Lubjanka, foto di guerre e foto di amori, corpi che danzano e corpi sugli alberi. La natura non manca, ma più volte domina la persona rispetto al paesaggio, a conferma che questo libro è un'indagine sull'umano che ci invita a osservare e lasciarci osservare senza paura. 
Alcune fotografie hanno una dimensione politica spiccata e ci parlano di eventi storici memorabili (la Caduta del muro di Berlino, per citarne solo uno), battaglie e libertà, altre hanno una dimensione onirica e sembrano sospese, quasi cadessero da mitologie lontane. Ci sono anziani, bambini, donne e uomini di ogni età, in un grido di espressione che appare trasversale nel senso che attraversa il tempo ricordandoci cos'è la bellezza, anche di fronte alla morte e alla perdita. 
A volte firmano gli scatti grandi nomi della fotografia, altre si attinge ad archivi del tutto sconosciuti, i cui scatti acquistano la stessa dignità artistica, se non in certi casi maggiore perché sconosciuta e preziosamente inedita per chi guarda.

La foto mi guardava è stretto nella morsa della guerra pur senza bisogno di dirci sempre con un'immagine esplicita cos'è la guerra. 
La postfazione non parla solo del sentire di una scrittrice che con l'Ucraina condivide la propria storia, ma parla di noi e ci richiama a una certa umanità, ci invita a opporci alla violenza tutelando le libertà dei singoli e dei popoli. Questo non è un libro di propaganda ma è un libro di memoria, e la Storia ci insegna che laddove manchi la memoria non può esserci coscienza politica. 

Claudia Consoli