Nel centenario della nascita, un omaggio a James Baldwin e alle sue pagine incendiarie: "La stanza di Giovanni"



La stanza di Giovanni
di James Baldwin 
Fandango, febbraio 2024

Traduzione di Alessandro Clericuzio
1^ edizione in lingua originale: 1956

pp. 228
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Sono in piedi davanti alla finestra di questa grande casa nel Sud della Francia mentre cala la notte, la notte che mi condurrà al mattino più terribile della mia vita. (incipit, p. 11)

C’è un senso di tragicità imminente fin dalle primissime battute de La stanza di Giovanni, il secondo romanzo pubblicato da James Baldwin e quello cui personalmente sono più legata. Oggi che ricorre il centenario della nascita dello scrittore afroamericano abbiamo una ragione in più per tornare alle sue pagine, alle sue parole, se mai ce ne servisse un’altra: la scrittura di Baldwin è incendiaria, ogni parola è politica e la lucidità con cui intrecciava temi e spunti diversi – dal razzismo alle relazioni, l’omosessualità, la ricerca della propria identità, il concetto di casa – a una lingua capace di virate impreviste e magnetica, lo rendono ancora oggi e direi più che mai un autore da leggere con rinnovato interesse. 

Fandango, in occasione del centenario, ha promosso una serie di iniziative per omaggiare lo scrittore tra cui soprattutto la pubblicazione in nuova edizione di tutte le sue opere: autore di romanzi e saggi, drammaturgo, attivista, l’opera di Baldwin vive oggi una nuova urgenza, soprattutto per quanto concerne il tema dei diritti civili. Centrale ma non assoluta la riflessione sulla questione razziale: Baldwin è uno scrittore nero – e omosessuale – negli Stati Uniti della segregazione, è un attivista per i diritti civili che si batterà per tutta la vita contro la discriminazione e i suoi testi sollevano questioni che sono ancora oggi attualissime; ma è prima di tutto uno scrittore, con tutte le sfumature e complessità che questo comporta e l’etichetta di “scrittore afroamericano” con quella connotazione tematica tanto precisa gli va stretta, pur rivendicando la necessità dell’azione, la presa di posizione. 

È così, quindi, che il secondo romanzo di Baldwin, La stanza di Giovanni appunto, si discosta dalla tematica razziale centrale nel libro d’esordio – Gridalo forte, 1953, romanzo di formazione in parte autobiografico ambientato ad Harlem – per raccontare invece una storia d’amore che potrebbe anche essere priva di connotazione razziale. Rifiutato dal suo primo editore, il romanzo è pubblicato nel 1956 e oggi è forse uno dei suoi testi più celebri e celebrati, particolarmente denso e stratificato per rimandi, spunti, tematiche affrontate, stile.

La stanza di Giovanni rappresenta la perdita dell’innocenza, il conflitto tra identità e convenzioni, tra ciò che siamo e l’io che invece scegliamo di interpretare per assecondare società e aspettative. Anzi, che cos’è, di cosa parla questo romanzo, lo ha detto con precisione lo stesso Baldwin in un’intervista del 1980:

La stanza di Giovanni parla di quello che succede se hai paura di amare. È un romanzo non tanto sull’omosessualità, quanto su quello che accade se sei così spaventato che alla fine non riesci più ad amare nessuno.

David, protagonista e voce narrante della vicenda, è un giovane newyorkese fuggito a Parigi alla ricerca di se stesso, come moltissimi suoi connazionali – e alter ego letterari – dell’epoca; ha perso la madre quando era ancora un bambino, i rapporti con il padre sono superficiali e più di semplice cortesia che di reale affetto e vicinanza. E, seppur a distanza, ha una fidanzata, Hella, bella e curiosa di fare esperienze in Europa prima di calarsi nel ruolo di moglie e di madre che ci si aspetta interpreti. Sceglievo poc’anzi non a caso il termine “fuggito” per riferirmi alla permanenza di David a Parigi: è qui, infatti, che cerca rifugio per sottrarsi alla vita adulta e alle decisioni definitive che comporta, per non dover fare i conti davvero con la propria identità e con i legami famigliari e sentimentali. E Parigi è il luogo ideale dove esplorare se stesso, quella sessualità che in America è proibita, giocare allo studente e rimandare almeno per un po’ l’urgenza di diventare adulto, di assumersi le proprie responsabilità e trovarsi un posto nel mondo. Bellissima e struggente, Parigi è il palcoscenico su cui si consuma il dramma, perché è chiaro fin da principio, fin dall’incipit, che ogni cosa di questa storia porta in sé il seme della tragedia.

Ma quando si comincia a cercare il momento cruciale, determinante, il momento che ha cambiato tutti gli altri, ci si ritrova a faticare in un labirinto di falsi indizi e porte che si chiudono di botto. (p. 19)

L’incontro con Giovanni, giovane immigrato italiano, metterà profondamente in crisi la facciata di conformismo dietro cui David ha scelto di celarsi. Ma lungi dall’essere un romanzo omoerotico, quella di Baldwin è una storia di amore e lotta – alla propria identità – di «occultamento e rivelazione» come efficacemente sintetizzato da Colm Toíbín nella postfazione alla nuova edizione Fandango. E Baldwin già in questa seconda opera dimostrava una capacità di indagine e introspezione dei personaggi davvero notevole e che sarà la costante di tutta la sua produzione letteraria a seguire. Concepito come una sorta di lunga confessione, La stanza di Giovanni si legge come una storia di formazione in cui il conflitto è tutto interiore e rappresentato da un’identità che il protagonista rifiuta di accettare.

Forse, come diciamo in America, volevo trovare me stesso. […]. Adesso credo che, se avessi avuto anche solo un vago sentore che l’io che avrei trovato si sarebbe rivelato semplicemente lo stesso io dal quale avevo passato tanto tempo a fuggire, sarei rimasto a casa. Ma, d’altra parte, credo che sapessi esattamente, dentro di me, cosa stavo facendo quando mi imbarcai per la Francia. (p. 32)

Non è stato il primo Giovanni, non sarà l’ultimo, ma la profondità del sentimento e del desiderio sconvolge profondamente David, anche nella tollerante Parigi, anche nella cerchia di amici che si trova a frequentare. Ed è qui, nel rinnegare se stesso e la propria identità, che si consuma il dramma maggiormente difficile da accettare, più della colpa e punizione di Giovanni, sorta di vittima sacrificale di questa storia di outsider. L’occultamento dell’omosessualità del protagonista si intreccia alla riflessione su intimità, legami affettivi, mancanze, instabilità dei sentimenti e delle relazioni. Ma anche al discorso sulla casa e su cosa davvero questo significhi, sulla necessità di mettere una distanza per trovare se stessi, le contaminazioni letterarie, la fiction che si lega all’esperienza personale e la sublima in qualcosa di ben altro dallo sterile dato autobiografico. E delle resistenze al nostro io più profondo, nel nome di una necessità ad assecondare stereotipi e convenzioni:

Volevo una donna che fosse per me terreno saldo, come la terra stessa, dove potermi sempre rinnovare. Un tempo era stato così, un tempo era stato quasi così. Potevo fare in modo che lo fosse di nuovo, potevo farlo diventare realtà. Serviva solo un veloce, duro atto di forza da parte mia per diventare di nuovo me stesso. (p. 129)

La stessa Hella, in fondo, è vittima delle convenzioni e del ruolo che ci si aspetta interpreti una volta esaurita la sua esperienza europea. In quello scambio disperato e diretto tra lei e David, sul finir della storia, quanto c’è di vero nei desideri che esprime e quanto è in realtà retaggio culturale, timore di venire meno a ciò che ci si aspetta da lei? Certo, non è su questo che Baldwin concentra la narrazione e il nostro sguardo, ma tant’è anche lì si posa: perché storie come queste, narrazioni tanto dense e stratificate, aprono squarci, ieri come oggi che questo autore è tornato – non ha mai smesso – ad essere letto con intensità e le sue parole sono finite, per esempio, sulle bocche dei manifestanti a seguito dell’omicidio di George Floyd. Quella folla indignata e la presa di coscienza generale che ne è scaturita trovano in Baldwin un’alternativa all'odio verso cui tanti altri scelgono invece di dirigere la protesta; pienamente consapevole nell’America razziale – razzista – del Novecento che in realtà razza è un costrutto politico, un’invenzione, e che solo uniti tutti quanti si combatte la discriminazione, l’eredità di Baldwin è anche questa: ci insegna, oggi come allora, a pensare con la nostra testa, non cedere all’odio, non rinunciare mai all’amore.

Debora Lambruschini