in

La scienza visionaria narrata da Benjamín Labatut: "Quando abbiamo smesso di capire il mondo"

- -

 




Quando abbiamo smesso di capire il mondo
di Benjamín Labatut

traduzione di Lisa Topi
Adelphi, 2021
Collana Gli Adelphi, 2024

pp. 180
€ 12,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

La scienza e la follia: un binomio indissolubile nelle opere di Benjamín Labatut, che offre un approccio non illuministico ma visionario alle scoperte scientifiche.

In questa raccolta di racconti - il cui titolo originale è Un verdor terrible, ovvero “Una vegetazione terribile” - Labatut narra le vicende di Alexander Grothendieck, Fritz Haber, Shinichi Mochizuki, Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger, Werner Karl Heisenberg, geni inquieti accomunati dalla convinzione che la loro vita dovesse essere volta a capire il mondo. Paradossalmente, si comprende alla fine di questo libro, che benché sia una raccolta di episodi ha una intrinseca unità di stile e contenuto, che forse la vera e propria follia della scienza è stata la convinzione di capire il mondo, di avere le chiavi definitive e "oggettive" per conoscere la realtà.

Proprio per il piglio filosofico di fondo, Quando abbiamo smesso di capire il mondo non è solo una raccolta di racconti ma anche una sorta di romanzo-saggio, che mescolando con leggerezza e, talora, con un tono quasi divulgativo, verità e invenzione, ci restituisce momenti epocali della storia della scienza. 

Si comincia con il racconto Blu di Prussia, pigmento sintetico, il primo dell'età moderna, che

essendo più a buon mercato, rimpiazzò del tutto il colore che i pittori usavano fin dal Rinascimento per decorare le tuniche degli angeli e il manto della Madonna: l'oltremare, il più raffinato e costoso dei pigmenti blu, che si otteneva dalla macinazione dei lapislazzuli estratti dalle miniere nella valle del fiume Kokcha, in Afghanistan. (p. 18)

Il talento di Labatut è quello di associare l'arte, il blu della notte stellata di Van Gogh e il blu oltremare di Giotto,  con la fine di Hermann Göring, condannato come criminale di guerra dal tribunale di Norimberga e morto suicida con una capsula di cianuro. Potrebbe sembrare un salto mortale, ma l'anello di congiunzione è proprio quel Fritz Haber intorno a cui ruota il racconto. Fritz Haber, chimico al servizio del Kaiser Guglielmo II, inventò la prima arma di distruzione di massa: erano le bombe a gas cloro che contenevano cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia. Benché venne insignito del premio Nobel per la chimica nel 1918 per la sintesi dell'ammoniaca, Haber sarà il responsabile dell'uso dei gas tossici come armi di distruzioni di massa, usate per la prima volta nella battaglia di Ypres, in cui in soli 10 minuti morirono 5.000 uomini. La scelta di un personaggio così controverso - basti pensare che la moglie, anch'ella chimica, si suicidò proprio per vergogna e dissenso nei confronti dell'uso sacrilego della scienza fatto dal marito - è paradigmatico per instradarci nella logica di Labatut: mostrare il carattere ambivalente della scienza, luciferina nel doppio senso di portatrice di luce ma anche di demoniache imprese. 

Scienza e guerra sono al centro anche del secondo racconto La singolarità di Schwarzschild, che narra l'ultima scintilla di un genio, ovvero la lettera scritta da Karl Schwarzschild in trincea e inviata ad Albert Einstein. In questa lettera 

in una grafia talmente minuscola che Einstein dovette usare una lente d'ingrandimento per decifrarla,  Schwarzschild gli aveva inviato la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della relatività generale. La lesse più volte. Quanto tempo era passato dalla pubblicazione della sua teoria? Un mese? Meno di un mese? Era impossibile che Schwarzschild avesse risolto equazioni tanto complesse in così poco tempo, quando persino lui, che le aveva inventate, non era riuscito a trovare che soluzioni approssimative. Quella di Schwarzschild era esatta: descriveva perfettamente il modo in cui la massa di una stella deforma lo spazio e il tempo circostanti. Einstein non riusciva a credere di avere fra le mani la soluzione. (p. 40)

Benché geniale ed esatta, questa soluzione venne chiamata «la singolarità di Schwarzschild» perché appariva un'aberrazione matematica, in quanto aumentando la massa in un'area piccola, come accade quando una stella gigante esaurisce il suo combustibile, la densità della stella aumentava a dismisura e la forza di gravità faceva curvare infinitamente lo spazio, fino a richiuderlo su se stesso. Apparve allora un "delirio metafisico", che minacciava i fondamenti della fisica. La paura di Schwarzschild era proprio quella che la fisica non fosse capace di spiegare i movimenti delle stelle e di trovare un ordine nell'universo. Morì a causa del pemfigo, una malattia autoimmune molto rara, scrivendo steso sulla barella a pancia in giù, con le braccia penzoloni i suoi ultimi densi fogli di calcolo. Vent'anni dopo, durante un'altra guerra mondiale, la scienza avrebbe accettato che il suo "delirio metafisico" era indubitabilmente vero: Robert Oppenheimer e Hartland Snyder in un articolo pubblicato sul «Physical Review» dimostrarono la fondatezza della profezia di Schwarzschild, mostrando l'esistenza dei buchi neri.

La fisica nel Novecento deve fare i conti con crisi epistemologiche e teorie che mettono in crisi l'universo newtoniano. Il racconto che dà il titolo al libro (nella versione italiana) è quello più esteso e anche il più appassionante. Quando abbiamo smesso di capire il mondo ha due protagonisti, fra loro assoluti antagonisti: Werner Heisenberg ed Erwin Schrödinger, due giganti non solo della fisica ma del pensiero novecentesco. Il racconto si apre ad Helgoland, l'unica isola in mare aperto della Germania, in  cui il giovane Heisenberg andò a curarsi dalla terribile allergia da cui era affetto. L'isola infatti è talmente brulla che in essa non vi cresce alcun fiore. Labatut ci racconta questo esilio con i toni allucinati e deliranti di un giovane fisico visitato dai propri demoni e dalla propria volontà furiosa di capire il mondo. Il problema era stato sollevato dalla fisica subatomica e dalle particelle "elementari" su cui Max Planck, Niels Bohr e Max Born avevano già effettuato delle ricerche.

Dall'esilio di Helgoland, venne fuori la meccanica delle matrici, resa nota in un articolo del 1923 e che è la prima formulazione della meccanica quantistica. Il racconto di Labatut segue a questo punto le reazioni di Einstein, di De Broglie e, infine, di Schrödinger a questa meccanica. Sarà proprio Erwin Schrödinger, premio Nobel per la fisica nel 1933, a contrapporre alla soluzione di Heisenberg un'altra meccanica, quella ondulatoria. Ancora una volta la malattia ha un ruolo importante, perché durante la permanenza di Schrödinger in un sanatorio - il fisico era affetto da tubercolosi - venne "illuminato" dalla funzione d'onda, che sarà l'equazione per la quale vinse il Nobel 

Naturalmente Labatut fa il suo gioco di narratore e la ricerca scientifica di questi fisici, più lunga, articolata e anche condivisa con altri mentori e avversari, viene qui presentata come travaglio spirituale singolare e spesso solipsista, mescolato a pulsioni sessuali e deliri. Ma in questo abisso di irrazionalità Benjamin Labatut va a cercare le radici della scienza novecentesca, mostrando che la ratio è indivisibile dal furor.

Questo ultimo approdo della fisica nel "regno dell'incertezza" è ciò che ha fatto vacillare anche il più iconoclasta dei fisici, Albert Einstein, che si rifiutò di accettare un cambiamento così radicale. Labatut racconta così i giorni epici del Congresso Solvay del 1927, dove si trovarono riuniti 29 scienziati, 17 dei quali erano stati o sarebbero stati in futuro premiati con il premio Nobel. 

Non si poteva incoronare il caso e abbandonare la nozione di leggi naturali. Doveva esserci qualcosa di più profondo. Qualcosa che ancora non conoscevano.  [...] Ogni mattina, a colazione (al di fuori delle e discussioniufficiali), Einstein poneva i suoi rompicapi, e ogni sera Bohr arrivava con la soluzione del problema. Il duello tra i due dominò il congresso e divise i fisici in due fazioni inconciliabili, ma l'ultimo giorno Einstein capitolò. (p. 160)

Proprio in questa occasione Einstein pronunciò la celebre frase che «Dio non gioca a dadi con l'universo». L'universo della possibilità, dell'accadimento imponderabile, è proprio quello che viene narrato con passione e ardore da Labatut. L'ultimo racconto, Il giardiniere notturno, ci parla di un giardiniere che era stato un matematico e che ora «parla di matematica come gli ex alcolisti parlano dell'alcol, con un misto di brama e terrore» (p. 175). Davanti alla crisi delle scienze novecentesche, davanti all'inarrestabile Caso, il matematico ha deciso di dedicarsi al giardinaggio, scoprendo una specie di alberi di agrumi che, in vecchiaia, soccombono per sovrabbondanza. L'atto prima della morte  una lussureggiante produzione di fiori e frutti. Ecco il titolo originale Un verdor terrible, ossia una natura che si moltiplica, facendosi beffe della volontà classificatoria e della ratio calcolante umana. Per comprendere il fenomeno dell'albero dei limoni, bisognerebbe tagliarne il tronco. «Ma chi avrebbe voluto fare una cosa del genere?» (p. 178). Con questo interrogativo ci lascia Benjamín Labatut, dopo averci fatto attraversare le montagne russe di idee vorticose e di menti eccelse ma anche abissali. 

Deborah Donato