Autunno 1913, Larcionèi, nel territorio di Fodòm (l'odierna Livinallongo). Una valle stretta, tra la Val Badia e la Val di Fassa, ai piedi del Col di Lana, abitata dalla comunità ladina, una popolazione unita da una lingua particolare, diversa dall'italiano e dal tedesco, da una storia identitaria fortissima che è riuscita a superare guerre, cambi di Stato e di governo, fino ad arrivare ai nostri tempi e da un insieme di tradizioni e consuetudini che ne fanno, tuttora, un nucleo stretto e resistente. E proprio la tradizione, la lingua e la cultura ladine sono il perno di questo nuovo romanzo di Matteo Righetto, Il sentiero selvatico, uscito quest'anno per Feltrinelli.
Quell'autunno a Larcionèi fu tremendamente piovoso, a memoria dei più anziani mai si era vista tanta pioggia cadere dal cielo, piovve per intere settimane. I vecchi del paese non sapevano più cosa pensare, sembrava una punizione, un segnale mandato da Dio. E in più a settembre c'erano anche state quelle tre notti stranissime, illuminate da una strana luce bluastra dall'altra parte della vallata che sembrava una palla luminosa, rotolava per un po' e poi spariva. A pensarci bene, il maltempo era iniziato proprio dopo l'apparizione di quella luce, chiamata dai paesani il Lum de le Auróne. Pensavano a tutto questo gli abitanti di Larcionèi la notte dei Morti, quando, fradici e infreddoliti, varcarono la porta della piccola chiesa del paese per seguire la messa dedicata ai defunti. Tra loro anche la famiglia di Katharina Thaler, per tutti Tina, una bambina di dieci anni, sveglia, vivace e intelligente. La piccola, figlia unica, prende posto, stretta fra il padre Paolo e la madre Marta. Nella penombra fumosa e umida della chiesa, le parole del parroco, insieme al rumore della pioggia incessante, inducevano sonnolenza. Tutti erano assorti e pensavano ai fatti propri, al maltempo, ai defunti. Tina invece pensava agli animali del bosco, a quanto dovevano soffrire per quella pioggia incessante. Pensava soprattutto agli orsi e ai lupi, odiati da tutti in paese. Ma non da lei. A un tratto il massiccio portone della chiesa, che era stato diligentemente chiuso dal sagrestano sbatté facendo entrare folate di pioggia e tramontana. Nessuno si era accorto che nel frattempo la piccola Tina era sparita.
La madre urlò, il padre la cercò ovunque negli anfratti della chiesa. Ma Tina non c'era. Tutti gli uomini si riversarono allora per il paese alla ricerca della piccola. Non poteva essersi allontanata molto. Invece nessuno fu in grado di ritrovarla. Dopo una notte di tregenda, segnata anche da alcune disgrazie, il giorno dopo Tina ricomparve, accanto alla fontana del paese, come se nulla fosse, senza alcun ricordo di quanto era successo. Da quel momento la vita di Tina e della sua famiglia non fu più la stessa. I paesani si convinsero che la piccola fosse stata rapita dai morti, che avesse avuto un contatto diretto con il diavolo e che si fosse trasformata in una strìa, una strega. Decisero così che quella bambina fosse la causa di tutte le maledizioni che accadevano in paese. Pure la guerra, che di lì a poco sarebbe arrivata a martoriare le montagne, doveva essere causa sua.
Isolata dal resto del paese, schernita dai compagni di scuola, derisa, temuta e odiata, pian piano Tina sente di trovare la propria pace e il proprio mondo a contatto con la natura, nei boschi, circondata dagli animali selvatici, dalle piante, dai fiori, dall'acqua. E mentre vaga nei boschi di Fodòm, sente spesso una voce di donna che la chiama, una voce che, sebbene non l'abbia mai sentita, le sembra familiare. E poi ci sono quelle visioni che forse hanno davvero a che fare con i morti e con quanto accaduto quella notte di cui lei non ricorda assolutamente nulla.
Già dalla presentazione delle prime pagine, è facile rendersi conto di come leggere questo romanzo significhi entrare in un mondo diverso da quello a cui siamo abituati. Un ambiente ancestrale, a volte anche ostile, nel quale l'essere umano è soltanto una parte. Un mondo che, in realtà, è quello che ci circonda, la natura, un ecosistema al quale l'uomo non è più abituato ma che cerca di dominare, di piegare alle proprie comodità. In queste pagine si celebra invece l'unione stretta e primitiva tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e il bosco, che rappresenta il selvatico, l'animale. Animale tra gli animali, l'essere umano avrebbe ancora in sé i mezzi e gli strumenti per sopravvivere nella natura, riconoscendosi pienamente parte di essa. Solo che li ha dimenticati. Tina, invece, sente di appartenere a quel territorio, a quei boschi, a quegli alberi. Si trova a proprio agio solo lontano dalle persone, in mezzo agli amati animali.
Era convinta che ci fosse un legame tra i vivi e i morti, così come tra uomini e animali e tra animali e piante, e torrenti e rocce e nuvole. Per lei ogni piccolo particolare del Creato, così come lo chiamavano i preti, aveva uno spirito, un'anima. «Io non ho paura», si disse guardando la luna che irraggiava il suo piccolo paese. «Qui invece ce l'hanno tutti. Hanno paura del vento, della pioggia, della neve. Hanno paura degli animali, della foresta, delle anime delle persone morte. Hanno paura degli spiriti della terra e dell'aria. Paura di ciò che vedono intorno a loro e di ciò che non vedono, come le cose che sono descritte nei racconti e nelle leggende. Io ho solo paura di loro, della gente». (p. 89)
Quelle de Il sentiero selvatico sono pagine intrise di un realismo magico in chiave montana che presenta il mondo delle terre alte con il suo vero volto. Che non è quello attuale, dei parchi avventura tra gli alberi, dei gonfiabili appena fuori dal rifugio, degli orsetti pupazzo pronti a fare amicizia con i bambini. La montagna come luna park delle vacanze estive, questo è quello che ormai certe località stanno creando. E che, per attrarre sempre più turisti, si attrezzano per dare alle persone ciò che, in realtà, già trovano in città, castelli di gomma per far divertire i bambini, rifugi che offrono pasti raffinati cucinati da chef stellati (con buona pace della vecchia polenta), aperitivi a bordo pista... No, in questo libro Righetto ci presenta la montagna come natura comanda, dove è proprio la natura a comandare e l'uomo, per sopravvivere e trarne sostentamento, si deve adattare e portarle rispetto. Accadeva cento anni fa, ma dovrebbe essere un monito valevole anche adesso. Righetto ci porta su una montagna che non dà rigenerazione, ma dove il domestico e il selvatico si fronteggiano, così com'è sempre stato, in una lotta ancestrale che, a volte, può anche vedere l'uomo soccombere.
Per tornare al romanzo, il fil rouge che collega le varie parti della storia è quel realismo magico di cui parlavo al quale il lettore deve lasciarsi andare. Accadono cose che non sono spiegabili con la ragione, ma appartengono a quel sottile crinale che unisce e, allo stesso tempo, divide natura e civiltà. Ci sono persone che hanno in sé doti quasi magiche grazie alle quali riescono a fare da ponte tra i due mondi e Katharina Thaler è una di queste. Tra l'altro questo personaggio non è nuovo ai lettori di Righetto. Chi ha letto La stanza delle mele, romanzo uscito nel 2022, ha già incontrato Tina nei panni di una vecchia signora considerata quasi una strega, un'anguana, un personaggio mitico e mitologico da cui è meglio stare alla larga, una che parla con i lupi e con gli orsi, uno spirito dei boschi. La figura di questa donna è rimasta nel cuore dell'autore tanto da dedicarle un romanzo intero, Il sentiero selvatico appunto, che ce la riporta bambina e ci racconta come la sorte, la natura, l'eredità e il pregiudizio della società l'abbiano trasformata in una mezza strega.
I segnali della natura le si rivelavano ogni giorno con più facilità, si accorgeva di sapere e intuire cose che nessuno le aveva insegnato. [...] Dove aveva imparato tutte quelle cose? (p. 198)
L'aura di magia viene però smorzata da un avvenimento storico che entra sulla scena con la potenza di una bomba, la Prima Guerra Mondiale. Un evento che sventra le montagne, porta via gli uomini e costringe all'esodo: vecchi, donne e bambini devono lasciare quelle terre dove austriaci e italiani si fronteggiano, le montagne sulle quali si combatte la Guerra bianca, vette inondate di sangue. E alla fine della guerra i territori sui quali vivono i ladini cambiano pure di proprietà. Vincono gli italiani e i ladini dovranno confrontarsi con altri "vicini", con altri "padroni", se così si può dire.
Sono molti gli spunti di riflessione che ci consegna questo romanzo, al di là della piacevolezza della lettura. Tra questi il male che possono fare la superstizione, il pregiudizio, l'ignoranza e la credenza che possono portare all'ostracismo. Qui a farne le spese è una bimba che, crescendo, troverà in sé la forza di sopravvivere nella solitudine. Trasformandosi davvero in quella strìa che i paesani avevano visto in lei quando aveva solo dieci anni.
Non si poteva raccontare una vicenda di questo genere senza ricorrere alla lingua nella quale prende vita, il ladino. L'intero romanzo è costellato di frasi, proverbi e dialoghi nella lingua dell'antica popolazione che danno nerbo alla narrazione, la rendono viva, vera e concreta. L'abilità dell'autore sta nel dare la traduzione all'interno del romanzo (senza asterischi e rimandi a piè di pagina, che avrebbero appesantito la lettura). Spesso ci riesce, a volte invece la traduzione si risolve in una ripetizione un po' forzata.
Tina è un personaggio riuscito. Anche se, a volte, l'intervento autoriale sui pensieri della bambina è un po' troppo accentuato (Tina ragiona e parla da adulta, troppo per essere sempre credibile), aver dedicato un romanzo alla genesi di questo personaggio risulta una mossa azzeccata. Il sentiero selvatico diventa così una favola nera, verde e nera, che ci porta al confine tra vero e verosimile, grazie a una donna che si pone a metà tra la civiltà e la natura, tra il domestico e il selvatico, tra il bosco e la casa. Un mondo dove il bramito del cervo, l'abbaio dei caprioli, il verso dei rapaci notturni, il fischio del camoscio, l'ululato dei lupi, il ruglio dell'orso, il bubbolio della civetta sono voci familiari. Basta saperle ascoltare.
Sabrina Miglio
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