Altrecose, aprile 2024
pp. 320
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Risale a poco più di un mese fa un lungo articolo pubblicato sul Toronto Star in cui Andrea Robin Skinner ha dichiarato che il padre abusò sessualmente di lei, mentre sua madre, la scrittrice canadese e vincitrice del Premio Nobel, Alice Munro, nonostante lo sapesse, decise comunque di non denunciare e di rimanere con lui.
La notizia uscì qualche mese dopo la scomparsa di Munro quando alcune di noi avrebbero pensato di rileggerla e piangerne in pace la scomparsa; altre avrebbero forse voluto leggerla per la prima volta per recuperare l’opera di un’autrice che possiamo tranquillamente definire un genio dell’arte del racconto. L’uso del condizionale passato non è casuale. Infatti, l’effetto che la scoperta di un aspetto mostruoso della sua biografia deve aver suscitato su molti ma non necessariamente su tutti, tra lettori affezionati e potenziali nuovi lettori e lettrici, può essere stato, tra l’orrore della scoperta, il senso di tradimento o il benché minimo stupore, anche quello della dissuasione. Letteralmente, in quelle settimane non era molto difficile imbattersi in post e commenti in cui lettori e lettrici dichiaravano che non avrebbero più desiderato leggere o rileggere i racconti di Alice Munro.
Perché questo lungo preambolo per parlare di Mostri. Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan? Perché quello che interessa alla sua autrice, Claire Dederer, giornalista per il “New York Times” e già autrice di Il cane a testa in giù (Sonzogno, 2016), non è tanto fornire un manuale di istruzioni pronto all’uso per risolvere un dilemma per lei irrisolvibile - che si può riassumere, banalmente, nella presenza del male lì dove esiste anche la bellezza estetica dell’arte.
Per Dederer sembra molto più urgente indagare, a partire da sé stessa tanto come fruitrice che come critica d’arte con un posizionamento femminista, il cambiamento della sua (e della nostra) esperienza dell’opera d’arte oggi, dal punto di vista del pubblico e dei suoi sentimenti; un pubblico che sembra sapere chiaramente cosa fare e come agire, ma che non sembra più sapere che cosa provare. O meglio, cosa può essere giusto o meno giusto provare di fronte al dilemma di questa nostra nuova era.
La prima cosa da sapere, forse, è che Mostri non è un saggio sulla Cancel Culture. Iniziare a leggerlo credendo il contrario, potrebbe deludere le vostre aspettative. La cultura della cancellazione è nominata più volte come il sintomo radicale di un cambiamento più complesso che è avvenuto nella nostra esperienza dell’arte nel contesto mediatico attuale; un contesto dove da un lato è diventato impossibile fingere di non volere sapere e di cui l’ossessione per la biografia degli artisti sembrerebbe esserne più una causa che un sintomo. Dall’altro, sapere tutto, con la presa di coscienza che ne consegue, è diventato un imperativo a cui - giustamente - non possiamo più sottrarci. Perché adesso, finalmente, le storie di violenza e di abuso che prima non avevano diritto di essere raccontate possono essere lette e ascoltate.
L’itinerario della stesura di Mostri è imbrigliato allo sviluppo di questo contesto e questo è chiaro fin dalle prime pagine. L’autrice ragionava sul tema prima ancora che l’attrice Alyssa Milano rilanciasse l’hashtag #MeToo, ideato diversi anni prima dall’attivista Tarana Burke, in occasione delle denunce per molestie sessuali al produttore cinematografico Harvey Weinstein. Era il 2017, e nel 2014 Claire Dederer lavorava già a un libro su uno dei suoi registi più amati, Roman Polanski, accusato di abuso sessuale contro la minorenne Samantha Geimer. I “mostri” a cui Dederer dedica i suoi tredici capitoli non sono semplicemente gli artisti o le artiste di cui abbiamo sentito parlare di più a causa del male che hanno fatto al prossimo, presunto o certificato che sia; sono gli artefici delle opere d’arte che hanno cambiato la vita all'autrice, che l’hanno fatta innamorare della bellezza. Roman Polanski, Woody Allen, Michael Jackson, J.K. Rowling, Valerie Solanas, Miles Davis, David Bowie. In tutti questi casi, il resoconto giornalistico dà il là alla scrittura critica e la trasforma in prosa confessionale, sopratutto quando, della mostruosità di alcuni artisti, ha fatto esperienza l’autrice stessa.
Scegliere di scrivere «un’autobiografia del pubblico» (p. 27) a partire dal proprio sé, dando vita di fatto a un memoir della sua esperienza artistica, è una strategia che permette all’autrice di difendere una tesi che non somiglia a nessuna di quelle che abbiamo sentito fino ad ora sulla questione: per l’appunto, distinguere o non distinguere la vita dalle opere. Perché entrambe le opzioni non sembrano più esenti da storture estremistiche e contraddizioni.
Chi può permettersi, oggi, di separare la vita dalle opere? Secondo Dederer, chi non è costretto a mettere in discussione la propria soggettività, brandendo la spada dell’oggettività della critica di fronte alla perfezione estetica. Chi ignora che ogni forma di bellezza artistica, anche avulsa dal contesto di emersione, suscita in noi nulla di diverso da un sentimento e ha sempre, in fondo, a che fare con la nostra soggettività, con le nostre reazioni emotive: nient’altro che una forma di amore e di desiderio. Una reazione tanto emotiva quanto quella di chi non è più in grado di fruire di una specifica opera d’arte senza la consapevolezza del documento di barbarie che quel documento di cultura, per parafrasare con Dederer le parole di Walter Benjamin, può sottendere.
Questa è una delle prime arguzie che Dederer riesce a elaborare, partendo dal suo punto di vista di critica d’arte che riconosce nella sua esperienza attuale la coesistenza di reazioni emotive contrapposte. Da un lato, ammette di non poter negare la grandezza di un film come Io e Annie proprio a partire dalla reazione emotiva che la sua perfezione stilistica suscita in lei; una perfezione traducibile con gli strumenti della critica ma non meno imbrigliata al suo personale, al modo in cui quella bellezza ha agito sul suo personale. Con un gesto che definirei di meta-critica, Dederer esplicita «la tensione tra autorità e soggettività» (p.84) per legittimare non solo il nutrimento autobiografico della sua scrittura critica (e viceversa), ma anche il suo desiderio di continuare a godere di opere che si sente in colpa ad amare.
Godersi la fruizione di Io e Annie risponde a un impulso emotivo quanto è emotivo sentire di non potere più godere nel guardarlo per il disprezzo che possiamo nutrire nei confronti del suo artefice. In entrambi i casi, dovremmo legittimare queste emozioni. Allo stesso tempo, godersi la fruizione di Io e Annie non significa perdere la consapevolezza che l’autore di tanta bellezza può aver anche commesso un crimine di natura sessuale; né significa cedere ai meccanismi di mitizzazione o idolatria che hanno contribuito a livello sistemico all’accumulo di quel potere; potere che in molti casi tende a lasciare impuniti o nascosti i suoi abusi. In altre parole, Dederer ha il grande coraggio di ammettere che non distinguere la vita dalle opere non le impedisce di continuare ad amare la produzione di qualcuno che non si merita il suo amore, anche se là sopra resterà per sempre una macchia, un’ombra scura che ci ricorda che per quanto divino sia l’impulso artistico, chi lo incanala è umano e può essere mostruoso.
Uno degli aspetti più apprezzabili di Mostri è l’importanza e la centralità che Dederer attribuisce al ruolo dell’arte all’interno delle nostre vite; che è diverso dal chiedere all’arte di essere utile e fare del bene. Proprio per questo, c’è un caso in cui distinguere la vita dalle opere è necessario per preservare la potenza esperienziale che l’opera d’arte può esercitare - proprio quando il suo contenuto è il male assoluto. Non distinguere la vita dell’autore, la sua biografia privata, da quella dei personaggi che incarnano il male assoluto nelle sue opere è una delle storture che Dederer decostruisce apertamente, riabilitando uno dei capolavori di Vladimir Nabokov, Lolita, servendosi degli strumenti della critica letteraria e del suo posizionamento femminista.
La seconda arguzia è quella di implicare sé stessa nella mostruosità dell’artista, non in quanto genio ma in quanto essere umano. La tenuta di questo argomento non sempre è mantenuta: in alcune pagine, per esempio quelle dedicate a Picasso, l’autrice sembra suggerire una specie di causalità tra il male e la genialità - come se la nostra definizione di genio fosse inseparabile da una certa dose di malignità, a tal punto che avremmo “creato il concetto di genio per spiegare la nostra attrazione per la cattiveria” (p. 132). In altri contesti, invece, come nelle pagine dedicate a Raymond Carver, a Hemingway o alla maternità crudele di autrici come Doris Lessing e Anne Sexton, il punto di Dederer è molto più chiaro. Non è tanto che l’umanità del male, la sua banalità, rende quel male giustificabile. Ma lo rende più comprensibile; rende più concepibile ai nostri occhi la possibilità che l’artista non sia una creatura eccezionale, né nel bene né nel male. Che la sua opera può aver incanalato quel male come può non averlo fatto. Che quel male può esserne la causa oppure no. Che è possibile aver compiuto delle cose orribili e avere comunque il diritto di non essere cancellati. Sopratutto se l’artista che è oppressore è stato a sua volta un oppresso, come nel caso di Polanski, per certi versi di Hemingway, e di J.K. Rowling; sopratutto se è il caso di autrici come Doris Lessing e Anne Sexton che potrebbero non avere avuto diritto di scegliere la propria maternità.
Dederer non arriva mai a parlare di giustizia trasformativa rispetto ad artisti e artiste accusate di crimini, violenze o abusi. Farlo risulterebbe molto complicato per tutta una serie di motivi. Sul piano pratico, non avrebbe senso parlarne per grandi autori e autrici del passato di cui ci restano solo le loro opere.
Inoltre, per alcune figure autoriali dotate di straordinario potere, la logica della cancellazione - a cui la giustizia trasformativa si oppone - risponde alle esigenze del boicottaggio politico inteso come forma di intervento radicale laddove il potere economico e il capitale simbolico dell’artista contribuisce all’affossamento della parola delle persone abusate. Dederer è consapevole di tutto questo, ma sembra chiedersi comunque se il suo posizionamento femminista non entri in contraddizione con la logica punitiva del call out come forma di giustizia privata e di risarcimento simbolico. E si chiede sopratutto se è giusto che sia il pubblico a dover rinunciare alla singolarità della propria esperienza artistica (e ai sentimenti che scatena) per vestire i panni del consumatore di un’arte reificata allo stato di merce, convinto di fare la rivoluzione a partire dai suoi consumi al cinema, in libreria o in TV.
Prendendo le mosse da Mark Fisher in Realismo Capitalista (2009), Dederer ci chiede di non ridurre la complessità della fruizione artistica a un mero atto consumistico, partendo dal presupposto che
il consumo non è un atto morale. Continuiamo a considerarlo il luogo delle nostre scelte etiche, ma la risposta non è lì. Consumare con cognizione di causa non ci rende migliori. Di fatto ci intrappola ancora di più nel contesto; ci coinvolge ancora di più in quella che Fisher chiama l’atmosfera del tardo capitalismo. […] Da consumatore, non puoi risolvere un bel niente; l’idea che si possa farlo è un vicolo cieco. Il tuo comportamento di consumatore d’arte non fa di te né un buono né un cattivo. Dovrai trovare un’altra via. (pp. 263, 266)
In altre parole, per Dederer il boicottaggio dell’opera d’arte e la logica della cancellazione rischiano di diventare una forma di distruzione della casa del padrone attraverso gli strumenti del padrone, un simulacro di prassi che non si limita ad andare avanti nell’assenza di un vero cambiamento strutturale ma ci distrae dalla ricerca del vero cambiamento strutturale.
Ripartire dai propri sentimenti, anche contraddittori, nella fruizione dell’arte di artisti e artiste disamabili può essere quantomeno una prima via per riappropriarci dell’esperienza estetica e riporla al centro delle nostre senza evitarne la problematizzazione politica.
Mostri si chiude con un parallelo tra l’esperienza della sofferenza amorosa e il dilemma di chi continua ad amare un artista che lo ha deluso o tradito nel profondo. Quando finisce un amore, può crollare l’idealizzazione che avevamo costruito attorno alla persona amata, ma è possibile che esaurito l’innamoramento, in fondo, non smettiamo di amare quella persona.
Questo però non vuol dire accecarsi in nome dell’amore, ma ammettere la mancata giustezza del proprio sentimento amoroso.
Nell’ultimo capitolo dedicato a Miles Davis, Dederer affronta il rapporto complicato tra Pearle Cleage, attivista nera e survivor, autrice del saggio Mad at Miles (1990), e la musica di Miles Davis - amato per la sua musica e odiato per i suoi abusi nei confronti delle donne. La forza della scrittura di Cleage e dei suoi argomenti, secondo Dederer, sta tutta nelle emozioni, nel raccontare dei «fatti che non saranno ideali, saranno perfino deprimenti, ma sono veri» (p. 277).
Secondo Claire Dederer, possiamo scegliere di fare due cose con i nostri sentimenti più scomodi: nasconderne la scorrettezza o prenderne atto, problematizzarne la natura e imparare a conviverci. Se scegliamo la seconda, l’opera d’arte può insegnarci ancora qualcosa.
di Elena Strappato