A voler applicare un’etichetta a Incorreggibili di Paola Moretti, appena uscito in libreria per 66thand2nd, molto probabilmente gli faremmo un torto: non tanto per l’inesattezza della scelta che individuerei in saggio critico-memoir, quanto per la probabile alienazione di una bella fetta di lettori ostinatamente avversi a tutto ciò che rientra nel calderone autofiction, memoir nostrani, metaletteratura, biofiction. Sarebbe un vero peccato perché il saggio di Moretti è un testo davvero interessante, denso di spunti, uno sguardo lucido e attento e che non viene mai meno agli intenti. È un ibrido che, nella struttura, mi ha ricordato Il blu non ti dona e Inventario di alcune cose perdute di Judith Schalansky e le opere di Dominique Fortier, tra i più interessanti testi a confine tra critica letteraria-saggio e memoir. Incorreggibili è notevole tanto per il contenuto, il punto di osservazione scelto dall’autrice, che per l’equilibrio tra critica letteraria e riflessione personale. E, ancora, per gli innumerevoli spunti di riflessione, rimandi e considerazioni dentro e fuori dal testo.
Chi sono le incorreggibili del titolo? L’autrice stessa, in un certo modo, e soprattutto le quattro scrittrici oggetto della riflessione critica: Elfriede Jelinek, Jane Bowles, Fleur Jaeggy, Clarice Lispector. Sono accomunate dalle loro scelte controcorrente, dal non essere mainstream, da quella vena di solitudine che ne attraversa l’opera e per certi versi la vita stessa. Ecco, la solitudine, l’ultimo grande tabù del nostro tempo insieme alla povertà:
È imbarazzante ammettere la propria solitudine, per certi versi è come ammettere di essere poveri: nella società capitalista la colpa è solo tua. Se non hai soldi, se non hai successo, è perché non ti sei impegnata abbastanza, non sei riuscita a creare le occasioni necessarie per migliorare la tua situazione economica. Se sei sola ci dev’essere qualcosa di sbagliato in te, una qualche mancanza. Se sei sola forse te lo sei meritato. (introduzione, p. 8)
Ripenserò spesso a questo passaggio nel corso di tutta la lettura, chiedendomi quanto davvero mi sia sentita a mio agio l’ultima volta che ho fatto qualcosa da sola o, ancora, quante volte abbia invece rinunciato per mancanza di compagnia in quel momento specifico. Nella nostra società la solitudine pare inammissibile e la parola stessa ha assunto nel tempo accezione negativa. Forse anche in questo caso più per le donne che per gli uomini. Le quattro autrici scelte da Moretti vivono stadi diversi di solitudine o di estraneità, nelle diverse sfumature del termine, a partire dal discorso su origini, appartenenza, casa, perfino la lingua della scrittura come nel caso di Jaeggy.
Sono incorreggibili anche per la scelta di non conformarsi: alle regole del mondo editoriale, all’ordine sociale, agli stessi desideri dei lettori. Accomunate perciò anche da un certo grado di impenetrabilità dei testi, diversissimi tra loro, che richiedono ai lettori uno sforzo. Intenzione che appare evidente nelle opere di Elfriede Jelinek, scrittrice austriaca e premio Nobel per la letteratura nel 2004, dove la forma è sempre al servizio del contenuto e la scrittura si fa sperimentale, a diversi livelli di impenetrabilità. Opere stratificate che si leggono su più livelli, in cui al centro, sempre, la critica sociale, più importante dell’estetica:
Quello che a prima vista sembrerebbe un testo da leggere in chiave psicoanalitica si rivela il ritratto spietato della società austriaca dell’epoca. Ancora una volta la scrittrice è interessata a rappresentare le relazioni di dominazione e asservimento inscritte nel tessuto sociale, siano esse tra genitori e figli o tra amanti. (p. 28)
Ed è anche nella rappresentazione del femminile che la carica sovvertiva di Jelinek si fa particolarmente compiuta; il linguaggio sfida regole e convenzioni ed è il mezzo attraverso il quale la scrittrice «disintegra e quasi ridicolizza gli assiomi della società dei consumi che identifica la donna con la sua immagine». La critica sociale, nei racconti di Jelinek, si intreccia al discorso su sessualità, famiglia, rapporti complessi. Il femminile rappresentato da Jelinek, Bowles, Jaeggy, Lispector scardina stereotipi e sovrastrutture al pari del linguaggio dei loro testi.
I racconti di Bowles sono popolati da personaggi eccentrici e donne che faticano a sottostare alle regole imposte: Nei suoi racconti riproduce un mondo popolato da esseri eccentrici e stralunati con scarsissima presa sulla realtà, un’umanità stramba, tragica e dolorosamente divertente composta in prevalenza di donne che faticano a conformarsi, ad adeguarsi a quello che gli altri, la società, vorrebbero per loro. Zitelle, lesbiche, madri oppressive, figlie insicure, sorella asfissianti, bambine tiranniche, donne passionali, meschine, egoiste. Ubriacone. (p. 45)
Dentro strutture narrative non convenzionali, i racconti di Bowles toccano temi quali l’alcolismo, l’amore tra donne, il viaggio come conoscenza di sé e, caratteristico dei suoi testi, la paura di scegliere. Storie che aprono squarci su altre narrazioni, letterarie e non, in un approccio che è l’ossatura del saggio di Moretti, l’equilibrio tra letteratura, fiction, memoir e i confini sempre più labili. Dove finisce l’esperienza personale e inizia la finzione letteraria? È il metaromanzo di Fleur Jaeggy, per certi versi la più sfuggente delle autrici protagoniste di questo saggio: Moretti ne riconosce il continuum dell’opera, attraversata da occorrenze tematiche, spunti, visioni, stile: la disciplina, l’ordine e le conseguenze sull’individuo, la follia, la scrittura, il doppio, i padri, l’ambiguità.
Ecco, la scrittura, è probabilmente il centro nevralgico del saggio, tanto come analisi critica dei testi degli altri quanto riflessione personale. È nelle scelte sperimentali di Jelinek e Lispector, nelle ambiguità di Jaeggy, nelle soluzioni non convenzionali di Bowles; ma è anche la riflessione sul senso stesso della scrittura mentre ci si interroga se sia davvero possibile per un autore non scrivere, quando ogni momento, ogni esperienza è comunque filtrato da un certo sguardo, da una certa postura; non scrivere – romanzi, saggi, racconti, memoir – ma comunque farlo, attraverso narrazioni altre, nell’inclinazione dello sguardo, nelle storie che si formano in testa prima che sulla pagina. E che cosa fare con quello che non riusciamo a maneggiare in parole, con le storie e le persone di cui non sappiamo o non possiamo scrivere?
Tutto diventa banale e trito di fronte a questo buco nero che è il lutto. Quest’assenza così grande che mi risucchia e mi fa sentire inconsistente. Che cosa devo dire? Di cosa dovrei parlare? Scrivo d’altro, scrivo di altre. (p. 69)
Sulla perdita – dell’amore – e sul lutto le pagine di Moretti toccano le pieghe più emotive e personali eppure, in qualche modo, sono anche quelle più universali, in quel delicato equilibrio necessario a narrazioni ibride come questa. La scrittura è salda, lo sguardo critico attento, la serietà delle ricerche su cui il testo si basa subito evidente: è uno scarto imprevisto rendersi conto che Moretti non è un’accademica e scrittrice di così lungo corso ma capace forse anche per questo di scandagliare i testi con il piglio dello studioso e con la stessa lucidità raccontare l’alienazione dell’expat, le partenze, i ritorni, l’inaffidabilità della memoria, l’idea di casa. E, soprattutto, aprire uno squarcio sull’opera di queste quattro autrici straordinarie e divergenti. L’interesse di Moretti verso la scrittura delle donne era già evidente nel bel progetto Donne d’America, antologia di racconti di scrittrici tra Otto e Novecento curata insieme a Giulia Caminito: un libro importante di cui personalmente avrei voluto si parlasse molto e molto di più e che si inserisce in un progetto più ampio di riscrittura del canone letterario.
Tra Berlino e Roma, tra racconto personale e riflessione critica, Incorreggibili mi pare uno dei testi ibridi italiani più riusciti degli ultimi anni e le considerazioni sulle autrici un ottimo punto di partenza per rileggerne le opere alla luce di una maggior consapevolezza, approfondire con ulteriori testi e sguardi. Perché in fondo, libri come questo, devono farci venire la voglia di tornare al testo originale, a scoprire tra le pieghe dei romanzi e dei racconti di Jaeggy, Lispector, Bowles e Jelinek quella pluralità di spunti e tematiche di cui abbiamo appena scalfito la superficie.
Debora Lambruschini