«Quello che siamo. Padri che non parlano coi figli»: "Quando muori resta a me", i silenzi e il confronto padre-figli nel nuovo romanzo di Zerocalcare



Quando muori resta a me
di Zerocalcare
Bao, maggio 2024

pp. 304
€ 24 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

Tutte le emozioni descritte in questo libro sono state provate veramente. Nomi, luoghi e situazioni potrebbero essere stati modificati, per tutelare i sopravvissuti.

È una dichiarazione al lettore ben precisa quella con cui Michele Rech apre il suo ultimo libro, Quando muori resta a me, pubblicato come sempre da Bao. Ed è, soprattutto, la chiave di lettura con cui entrare in questa storia, tra le più intime e personali, dove non è tanto il dato autobiografico inteso come fatti e situazioni a contare quanto ciò che le cose significano nella vita reale che l’autore riversa sulla pagina. Un flusso di coscienza l’ha descritto Zerocalcare in diverse interviste, un graphic novel che pur inserendosi perfettamente nella bibliografia dell’autore per tutta una serie di occorrenze, caratteri e modalità narrative, è anche profondamente diverso dal resto e che, semmai, è a Dimentica il mio nome che più si riallaccia per tematiche trattate, postura autoriale, intenzioni. Se in quel volume Zerocalcare ripercorreva la storia del ramo femminile della famiglia e segnava uno spartiacque importante nella propria produzione letteraria, in Quando muori resta a me il focus è nel rapporto con il padre e nell’incomunicabilità dei sentimenti che sembra caratterizzare appunto i legami maschili della sua famiglia e forse non solo.

Un viaggio in macchina e un paio di giorni alla vecchia casa di famiglia sulle Dolomiti è l’occasione per indagare segreti, ricordi e realtà, ma anche per confrontarsi con quello che manca, con i silenzi e la narrazione che scegliamo delle nostre vite. È lo Zerocalcare adulto che torna al divorzio dei genitori, a certi misteri di cui improvvisamente si rende conto e ad antichi rancori incisi nella pietra delle Dolomiti. Riemergono in questo volume e in maniera molto più urgente e profonda anche tematiche come lo scorrere del tempo, l’età adulta e ciò che si è troppo a lungo procrastinato, gli alibi che troppo spesso ci costruiamo «per rimandare la vita». Il viaggio di Zerocalcare e del padre è tanto nei luoghi quindi quanto nella memoria e soprattutto in un rapporto fatto di parole e sentimenti inespressi:

Un muro di silenzio in mezzo a noi. E non perché abbiamo discusso in autogrill eh. Figurati, le discussioni si potrebbero risolvere parlando, dicendoci cose profonde, intime, serie. […] Ma non riesco proprio a immaginare come sarebbe un dialogo intimo con mio padre. È così e basta. Noi ‘ste cose non le sappiamo fare. (p. 63)

Di parlare di sentimenti, parlare davvero, nessun maschio della famiglia di Zerocalcare sembra essere capace e quello che ci suggerisce la lettura è che nella realtà fuori dalle storie certe cose difficilmente cambiano; si aprono spiragli, si esorta se stessi a fare meglio prima che sia troppo tardi, ma non ci sono grandi momenti di catarsi o epifanie, happy ending che cancellano di colpo abitudini e rapporti di una vita. Lo stesso scorrere del tempo, quindi, l’inevitabilità della morte e i ruoli invertiti di accudimento e preoccupazione sono l’altro grande tema di questo romanzo che, come si accennava, tocca profondità ancora nuove rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Non è privo dell’ironia caratteristica di Zerocalcare, tutt’altro, ma le questioni affrontate e chissà forse l’età adulta che anche buona parte dei suoi lettori ha raggiunto aprono prospettive nuove sulle storie e su ciò che più ci riguarda. I riferimenti pop anni ’80, qualche virata di realismo magico e certi tratti caratteristici dell’autore e delle sue storie sono sempre riconoscibili, ma c’è un’altra urgenza e un altro muro da abbattere nel dialogo tra personaggio e autore. Personalmente ho iniziato a leggere seriamente Zerocalcare sei anni fa, con Macerie prime, e quello è stato per me lo spartiacque vero e proprio nella sua produzione letteraria ma anche nel mio approccio alla forma graphic novel. Ed era lì, nel volume I e II, il narratore più maturo, che ti strappava sicuramente una risata ma subito dopo arrivava una bastonata mentre parlava dell' incapacità di diventare adulti, di trovare il proprio posto nel mondo, di venire a patti con i sogni che avevamo e la realtà.

È questo, in fondo, che Michele Rech riesce a fare libro dopo libro, specchi delle nostre paure più profonde, delle crisi, delle storture del mondo. Quel mondo che forse «non ci renderà cattivi» ma che senza dubbio mette a dura prova con il carico di incertezze che sono l’età adulta. Allo specchio questa volta è lo stesso Rech a scegliere di guardarsi, in una delle scene più interessanti del volume e nell’ottica di quella riflessione su personaggio e autore cui si accennava poc’anzi. Il personaggio e l’uomo nelle storie di Zerocalcare-Rech sono da sempre confusi, ma qui vedere per la prima volta riflesso il vero sé è uno spunto che apre a molteplici interpretazioni, dall’intenzione di abbattere del tutto il confine tra realtà e finzione alla presa di coscienza del tempo che nella vita vera di certo non si è mai fermato. Siamo abituati nelle storie di Zerocalcare ad andare avanti e indietro nel tempo, al personaggio bambino o adolescente, ma quando arriviamo all’adulto è un’immagine fissata da tempo, che forse ben rappresenta quell’idea – emersa già in altre sue narrazioni – di immobilità mentre tutti intorno a lui sembrano andare avanti, più risolti, più decisi, più equipaggiati alla vita e alle scelte.

È qui, allora, in questo volume, che Rech-Zerocalcare si confronta con le domande più scomode: la cura, la perdita, la genitorialità. Il padre, Ping-ping, lo spiazza con la domanda innominabile – quindi quando lo fai un figlio? – quella che rende più che mai reale il riflesso allo specchio e, per contro, ancora più forte il contrasto con i silenzi del loro rapporto. È un nuovo tassello fondamentale nella bibliografia dell’autore, denso di considerazioni anche sul successo e le recenti avventure fuori dalla carta stampata. Ma soprattutto è, come sempre, un dialogo intimo e universale insieme: ancora una volta Rech parla a ognuno di noi, alle nostre ansie e timori. Molto spesso lo si è definito “scrittore generazionale”, ma oggi più che mai l’etichetta mi pare gli stia stretta, come, del resto, parlare di graphic novel: sono romanzi, sono storie che si rivolgono a un pubblico che non necessariamente deve riconoscersi nell’età dei protagonisti ma che di certo riconoscerà un certo sentire.

Debora Lambruschini